Il sogno scozzese tenta anche i serbi della Bosnia
L’eco del voto che ha bocciato la separazione della Scozia dalla Gran Bretagna è arrivata anche nei Balcani, un territorio in cui l’insoddisfazione per i confini attuali è forte. Il primo a parlare, come spesso accade quando si tratta di indipendenza, è stato Milorad Dodik, presidente Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina.
Fra le ragioni che hanno portato molti leader europei a sostenere il fronte del “no” al recente referendum scozzese, quella che ha pesato sicuramente di più è stata la paura che la vittoria degli indipendentisti avrebbe potuto produrre un effetto domino fatale per l’Unione Europea. Era opinione diffusa, infatti, che se Edimburgo avesse definitivamente rotto con Londra ciò avrebbe legittimato istantaneamente le richieste dei movimenti separatisti catalano, basco, fiammingo e corso (per citarne alcuni). Oltre a ciò, una tale eventualità avrebbe reso insostenibile la posizione europea in Ucraina, territorio in cui, in nome della sovranità di Kiev, Bruxelles sta attivamente sostenendo la lotta contro le regioni orientali che desiderano separarsi dallo Stato centrale.
Nonostante la vittoria degli unionisti e le dichiarazioni ufficiali della maggior parte dei leader europei, che si sono complimentati con Cameron per il risultato, il processo iniziato sembra essere destinato a continuare e potrebbe addirittura accelerare se la Catalogna dovesse riuscire ad organizzare una consultazione simile a quella appena tenutasi in Scozia. L’eco del voto, comunque, è arrivata anche nei Balcani, un territorio in cui l’insoddisfazione per i confini attuali è forte. Il primo a parlare, come spesso accade quando si tratta di indipendenza, è stato Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska (Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina). Da sempre impegnato a osservare con interesse ogni tentativo di applicare il principio di autodeterminazione tramite referendum, durante il recente faccia a faccia con Vladimir Putin egli ha dichiarato che l’obiettivo di Banja Luka è «ritornare alla versione originale degli accordi di Dayton», restituendole le prerogative perdute. Se il dialogo su questo tema non dovesse funzionare, però, egli ha ribadito che l’unica soluzione sarebbe che la «Republika Srpska legittimi il suo diritto di decidere, tramite referendum, il suo status». Come prevedibile, queste dichiarazioni hanno scatenato le violente reazioni dei vertici della Federazione di Bosnia ed Erzegovina (l’entità croato-musulmana), che in alcuni casi hanno paragonato le parole di Dodik a quelle di Draza Mihajlovic, capo dei monarchici serbi durante la II Guerra Mondiale, dimostrando che la politica nel Paese è ancora legata a fatti accaduti settant’anni orsono.
A tal proposito è interessante la posizione della Russia, Paese estremamente interessato ad estendere la propria influenza sull’est della Bosnia. Secondo il ministro degli Esteri Lavrov, infatti, l’obiettivo di Mosca è difendere gli Accordi di Dayton, sottolineando che una loro revisione avrebbe effetti negativi sul Paese, dato che questo sopravvive come nazione unica grazie ad essi. Il capo della diplomazia russa ha anche espresso la propria contrarietà alla figura dell’Alto Rappresentante (istituzione internazionale che da 19 anni de facto commissaria il Paese), accusato di possedere delle «prerogative dittatoriali che si sarebbero dovute cancellare da tempo». Sebbene tali posizioni siano certamente influenzate dagli interessi economici e geopolitici di Mosca, le perplessità sollevate da Lavrov devono far riflettere, soprattutto l’Europa che è uno dei grandi sponsor dell’ordine attuale.
L’obiettivo che si intendeva raggiungere con gli accordi di Dayton, infatti, era quello di gettare le basi per rendere la Bosnia un paese indipendente e unito, cosa che non era mai stato nella sua storia e che pochissimi volevano. A distanza di quasi vent’anni, però, tale progetto sembra essere fallito, poiché gli interessi delle varie parti in causa riescono a bloccare ogni tentativo di reale unificazione. Il problema è aggravato anche dal fatto che l’unità del Paese, garantita da accordi internazionali, è messa in discussione dai suoi stessi abitanti, insoddisfatti della situazione attuale e desiderosi di riunirsi alle “madrepatrie” confinanti, e dalle conseguenze dell’appoggio dato dall’Occidente all’istituzionalizzazione di una lingua e cultura bosgnacche separate da quelle croate e serbe.
La situazione più problematica è quella della già citata Republika Srpska che, a netta maggioranza serbo-ortodossa, mantiene stretti legami con Belgrado e che aspira a staccarsi dal controllo di Sarajevo. Al di là delle motivazioni (molto forti) di natura religiosa, politica e culturale, due elementi pesano su queste aspirazioni: l’atteggiamento molto negativo tenuto da Bruxelles a riguardo e la concessione dell’indipendenza a Kosovo e Montenegro. Da parte Europea, infatti, le richieste di Banja Luka vengono sempre considerate come assurde e pericolose e quindi condannate apertamente. Tale atteggiamento, che impedisce di andare ad agire direttamente sulle cause del malcontento e quindi eliminare le aspirazioni separatiste, viene aggravato dai frequenti riferimenti alla guerra del ’92-’95, che creano una forte sfiducia nei confronti della Ue e rafforzano il fronte ostile all’unità del Paese.
Il secondo aspetto, quello relativo ai precedenti rappresentati dal referendum montenegrino del 2006 e dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza di Pristina del 2008, è forse ancor meno “digerito” dall’opinione pubblica. A tal proposito, infatti, le domande diffuse fra i Serbi di Bosnia sono «perché loro sì e noi no?» e «perché non possiamo unirci alla Serbia?». La percezione popolare, rafforzata anche dal recente caso Scozzese, è che il principio di autodeterminazione funzioni per molti popoli, ma non per quello Serbo. Agli occhi degli insoddisfatti, ad esempio, è inconcepibile che il Kosovo abbia ottenuto l’indipendenza senza alcun voto popolare e che questa sia stata anche riconosciuta dalla maggioranza degli Stati dell’Onu. Sebbene sia chiaro che agli occhi dell’Europa e dell’Occidente in genere i Serbi siano i grandi colpevoli dei conflitti degli Anni ’90, l’uso del bastone su questi temi rischia di acuire la frattura piuttosto che ricomporla, rendendo i contrasti fra le diverse confessioni religiose ancora più decisi.
Se a tale elemento si aggiunge che Sarajevo guarda con sempre maggior interesse ad Ankara e al suo leader incontrastato Recep Erdogan, che si è eretto a protettore dei musulmani balcanici, si capisce che all’Europa non resta molto tempo per agire. L’azione politica non può prescindere, però, da un più equo trattamento nei confronti dei vari gruppi etnico-religiosi, anche perché, spesso, le maggiori delusioni e minacce per Bruxelles sono arrivate proprio da quelli che si reputavano “amici”.