Il servo malvagio in un dipinto di Fetti
Tra le 42 parabole dei Vangeli, una delle più interessanti è quella del servo malvagio, perché ci parla di due diversi modi di usare il potere. Da un lato la grazia divina, dall’altro un uomo ingrato. La scena del servo, che soffoca un suo piccolo debitore, è rappresentata in tutta la sua intensità in un dipinto di Domenico Fetti, detto il Mantovano.
- LA RICETTA: CAPUNSEI
Le parabole (dal greco παραϐολή, parabola) del Nuovo Testamento si trovano principalmente nei tre Vangeli sinottici. Si tratta di storie allegoriche raccontate da Gesù di Nazaret e che presentano un insegnamento morale e religioso. Seguendo un processo radicato nella tradizione ebraica, queste storie hanno lo scopo di presentare verità attraverso elementi della vita quotidiana o l’osservazione della natura, ma si allontanano in Gesù dalla forma semplicemente pedagogica di interpretazione della Legge da parte dei rabbini per evocare il Regno di Dio e i cambiamenti che avvengono al momento della sua venuta.
Di parabole ce ne sono 42, di cui undici sono comuni ai tre Vangeli sinottici, otto a due Vangeli, una si trova esclusivamente nel Vangelo di Marco, sei solo in quello di Matteo, tredici in quello di Luca e tre nel Vangelo di Giovanni.
Una delle più interessanti parabole, a parere di chi scrive, è quella del servo malvagio (Matteo 18:21-35) perché parla dell’uso del potere.
Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette. A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e, afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone tutto l'accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello».
Come spiegare che un servo dovesse ben diecimila talenti al suo re? Quale re avrebbe prestato una somma così esorbitante a uno dei suoi schiavi? È difficile crederlo, a meno che questi “servitori” non fossero vassalli del re o signori o governatori responsabili dell’amministrazione di un distretto del suo regno. Forse è meglio non cercare una risposta alle suddette domande. Gesù aveva bisogno che la somma fosse enorme per gli scopi della sua parabola. Il “talento” rappresentava un certo peso in argento o oro che variava da paese a paese. In Grecia era equivalente a 6.000 denari, ovvero 6.000 volte il salario giornaliero di un lavoratore agricolo (Matteo 20:2). Diecimila talenti rappresentavano quindi 600.000 volte il debito del secondo debitore: è questa sproporzione che conta nella parabola.
Il servo, ovviamente, non poteva pagare un debito così enorme. Il re decise quindi di venderlo come schiavo, insieme a tutta la sua famiglia. Questa era una pratica comune anche in Israele (Levitico 25:39-47; 2 Re 4:1; Neemia 5:5; Isaia 50:1; Amos 2:6; 8:6). Questo re non è un tiranno, agisce secondo le usanze del tempo. È semplicemente giusto. È l’illustrazione dell'enorme debito spirituale dell’uomo, del suo totale declino. Non ha niente per riparare, per espiare le sue colpe. Dio considera l’uomo responsabile dei suoi peccati e glieli imputa. Perciò è ridotto in schiavitù dai suoi peccati.
E qui interviene la grazia di Dio, Lui che tutto può. Decide di fare tabula rasa dei peccati di questo infelice e gli azzera il debito. Ci si aspetterebbe molta gratitudine da parte del servo. Invece no, non solo non ne dimostra affatto, ma appena gli vengono annullati i debiti (leggasi: i peccati) pensa bene di commetterne di nuovi. E così entra nella spirale discendente e malefica del cattivo uso del potere. Questo è un argomento che purtroppo viene poco sviscerato dalla scuola, dalla famiglia e perfino dalla Chiesa: infatti, non sentiamo mai omelie sul tema. Forse perché si è semplificata la nozione di potere legandola al male, potere=male, cattivo utilizzo. Ma così non è e questa parabola ce lo dimostra: il primo debitore usufruisce di un’azione di buon uso del potere (compassione, misericordia), il secondo invece è vittima del cattivo uso del potere (crudeltà, empietà). Benché era appena stato perdonato, il servo malvagio è incapace lui stesso di perdonare.
Questo è un aspetto che osserviamo anche nella nostra vita di tutti i giorni: ci sono persone che si sentono talmente indegne della bontà di Dio che non prendono in considerazione il perdono né per sé né per gli altri (è la principale ragione per la quale molti non si confessano). Sono talmente sprofondati nel peccato come azione di ogni momento che considerano inutile il perdono. Possiamo dedurre che il servo malvagio non è capace di perdonare perché è privo lui stesso della capacità di farsi perdonare, pensando inconsciamente che non lo merita. Infatti, all’inflessibilità dell’atteggiamento si aggiunge anche la violenza, perché, non dimentichiamolo, il servo malvagio, incontrando il suo debitore, lo prese per il collo e “lo soffocava”.
La terribile scena è raffigurata con maestria da un artista italiano poco noto ai più, ma le cui opere sono presenti in un gran numero di musei nel mondo. L’opera è “Parabola del servo malvagio”, dipinta nel 1620 ed esposta alla Gemäldegalerie Alte Meister (Pinacoteca dei maestri antichi) di Dresda. L’artista è Domenico Fetti (Roma, 1589 - Venezia, 16 aprile 1623), o Feti, conosciuto anche come “il Mantovano”. Fu un pittore italiano molto noto in epoca barocca per la straordinaria vena naturalista delle sue opere. Fu molto prolifico, malgrado la vita abbastanza corta che visse. Nacque a Roma nel 1589 e svolse il suo apprendistato presso Lodovico Cigoli (1559-1613). Nel 1614 si trasferì a Mantova dove fu assunto dai Gonzaga come pittore di corte, grazie al granduca Ferdinando che rese famosi i suoi dipinti. Da questo periodo derivò appunto il soprannome “il Mantovano”.
A Mantova riuscì a mettere insieme i soldi necessari ad aprire la propria bottega, dove lavorò anche la sua famiglia. In questa città Fetti ebbe modo di dedicarsi agli affreschi e alle tele ad olio, che sono fra i suoi dipinti più famosi, commissionati perlopiù dalle chiese locali: citiamo l’Apoteosi della Redenzione presso l’abside della Cattedrale di San Pietro; la Moltiplicazione dei pani e dei pesci (dove dalla folla del Seicento, povera e fastosa, riemergono tipi di popolani e vecchi, di fanciulli, uomini e donne), vari dipinti di Martiri e altri quadri realizzati per la chiesa di Sant’Orsola e oggi custoditi al Palazzo Ducale di Mantova. Non furono solo questi i dipinti famosi che catturarono l’attenzione dei mantovani; meritano un cenno difatti anche quelli sulle parabole evangeliche (i ciechi, il buon samaritano e il figliol prodigo, nonché il servo malvagio).
L’artista aveva come modelli Giulio Romano, Caravaggio e Rubens, che ispirarono la sua pittura fatta da contrasti luminosi, colori intensi e pennellate ruvide. Nel 1622 Fetti partì per Venezia, dove, affascinato dalla città, decise di rimanere. Purtroppo per poco: l’anno dopo morì, a seguito di una malattia. Del suo periodo veneziano abbiamo le tre scene della Passione di Cristo alla Galleria Corsini di Roma. Merita di essere citata anche la Malinconia (1618 circa) esposta oggi a Parigi (al Louvre): è un’opera di profondissima ispirazione.
Ma l’intensità del dipinto che raffigura il servo spietato colpisce più di tutte le altre e fa riflettere. Perché non c’è peccato peggiore del peccato contro la grazia di Dio.