Il santuario di Chioggia con il Crocefisso "parlante"
La storia della chiesa di San Domenico a Chioggia, un tempo officiata dai frati domenicani che la costruirono intorno al 1287, ruoto attorno al grande Crocefisso di legno collocato sopra l’altare maggiore. La tradizione dice che sia stato scolpito ai piedi del Cristo morente da Nicodemo con l'aiuto degli angeli.
Un ponte omonimo, su un omonimo canale, consente di raggiungere dalla terraferma la chiesa di San Domenico a Chioggia, un tempo officiata dai frati domenicani che la costruirono intorno al 1287. Dell’antico edificio romanico resta ancora il campanile trecentesco con le bifore che si aprono al livello della cella campanaria. Il tempio subì nei secoli diverse traversie e venne completamente ristrutturato tra la metà del Settecento e l’inizio dell’Ottocento.
L’impianto attuale è a navata unica con il soffitto a volta e cappelle laterali dove si conservano pregevoli opere d’arte. Una in particolare comportò la trasformazione della chiesa da semplice parrocchia a santuario: si tratta dell’imponente Crocefisso collocato sopra l’altare maggiore, la devozione verso il quale è testimoniata dall’elevato numero di ex voto, per lo più di umili pescatori, conservati nella chiesa. Sono diverse le leggende che spiegano la provenienza di questo straordinario manufatto di arte sacra. Quella più diffusa racconta che sia stato scolpito ai piedi del Cristo morente da Nicodemo, che invocò l’aiuto degli angeli per rappresentare le fattezze del Santo volto così sofferente. Nicodemo si assopì e al suo risveglio trovò l’immagine divina perfettamente riprodotta.
Dalla Terra Santa il Crocefisso sarebbe poi giunto a Iesi, nelle Marche, dove si animò colloquiando con San Pietro Martire che diede ordine di trasferirlo a Venezia. L’imbarcazione che lo trasportava naufragò e il Crocefisso venne ritrovato dai domenicani sul litorale di Chioggia, nel punto in cui venne eretta la chiesa. Il prezioso simulacro, le cui dimensioni sono il doppio di quelle naturali, domina l’aula domenicana e si impone al fedele o al visitatore, attraendolo a sé. La croce è un legno nodoso con i bracci ricurvi, la cui conformazione a ipsilon è piuttosto diffusa nell’iconografia cristiana. Alla sua sommità un cartiglio recita in caratteri longobardi il dramma che si sta consumando: Mors Christi dura monstratur in ista figura, la morte di Cristo è svelata in tutta la sua durezza in questa effigie. Sormonta la scritta un pellicano simbolo del sacrificio di sé per donare ad altri l’esistenza. Paradossalmente questo corpo condannato alla pena capitale è un Albero della Vita, la cui gemma che fa rifiorire l’umanità è il Cristo stesso.
Il capo, reclinato sulla spalla, incassato nel torace, con rivoli abbondanti di sangue che scaturiscono dalle ferite inferte dalle spine, è estremamente curato nella chioma fluente e nella barba a riccioli ben definiti. Al contrario, il corpo è estremamente stilizzato e le membra esili risultano essere quasi scheletriche. Osservandolo dal basso il viso esprime tutta la sofferenza del Cristo agonizzante se guardato dal lato destro. Viceversa, dal lato sinistro il Cristo appare ormai sereno nel riposo della morte e nella certezza della Resurrezione. L’immagine sacra ebbe una grande diffusione e venne ampiamente riprodotta sulle vele e sulle prue delle barche.
San Domenico conserva, inoltre, l’ultima tela di Vittore Carpaccio, dal punto di vista artistico l’opera più pregevole del complesso domenicano. Il dipinto rappresenta un san Paolo stigmatizzato con la tunica verde e il manto vermiglio che su un prato fiorito regge nelle mani, rispettivamente, il libro delle Epistole e la spada. Anche il suo sguardo, però, è fisso in un Crocefisso infilzato nel suo petto.