Il sacrificio di Isacco, la fede è motivo di ricompensa
Fu il cardinale Maffeo Barberini, futuro Urbano VIII, a commissionare al Caravaggio il dipinto sul sacrificio di Isacco, conservato agli Uffizi. Abramo è ritratto nell’attimo in cui un dolcissimo angelo blocca con fermezza la mano che impugna il coltello. Il rosso acceso della veste che cinge i fianchi del patriarca ci suggerisce di guardare ad Abramo quale esempio di fede assoluta in Dio, che lo ha ricompensato come gli aveva promesso.
Michelangelo Merisi, Il sacrificio di Isacco, Firenze - Galleria degli Uffizi
In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!» (Gen 22, 1)
Sarebbe, di lì a poco, diventato Papa col nome di Urbano VIII il cardinale Maffeo Barberini, committente del dipinto, ora agli Uffizi, in cui Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, mise in scena ciò che accadde dopo quell’«Eccomi!» pronunciato con prontezza da Abramo al Suo Signore che gli chiedeva di sacrificare l’unico figlio.
Era appena iniziato un nuovo secolo, il XVII, e il Merisi, da qualche anno a Roma, aveva già fatto parlare di sé. Per questo importante ingaggio interpretò il soggetto, suggeritogli dal potente prelato, mantenendosi fedele all’iconografia tradizionale che la pittura moderna cinquecentesca aveva ereditato dall’immaginario paleocristiano.
La scelta del formato orizzontale doveva esaltare il contenuto del racconto che si sviluppa in primo piano con sorprendente realismo. Abramo è l’apice di un impianto piramidale lungo cui sono collocati i diversi personaggi. Il patriarca è ritratto nell’attimo in cui un dolcissimo angelo blocca con fermezza la mano che impugna il coltello. Il suo sguardo severo è sorpreso dall’intervento divino: la fronte si aggrotta ma il gesto, pur sospeso, rimane deciso, segno dell’obbedienza totale alla richiesta di Dio.
Il dramma si consuma in questo preciso istante ed è pienamente espresso nell’urlo disperato di Isacco, riverso sull’ara sacrificale, stretto nella morsa del padre. La luce, imprescindibile ingrediente dell’alchimia caravaggesca, colpisce i punti cruciali: la mano dell’angelo, la fronte di Abramo, il viso terrorizzato di Isacco. E raggiunge, soffusa, lo sfondo su cui compare un paesaggio, elemento, viceversa, atipico per il maestro lombardo, identificato dai critici in un luogo ben preciso, Castel San Pietro Sabino, immerso nella campagna romana e feudo di una potente famiglia di committenti del pittore. Il casolare che vi si scorge sembrerebbe un edificio sacro con annesso battistero, alludendo, così, alla nascita della Chiesa cattolica, illuminata dalla grazia di Dio, qui interpretata, come pur sosteneva sant’Agostino, dalla luna.
La Chiesa, infatti, nasce dal sacrificio di Cristo sulla croce, di cui quello di Isacco è prefigurazione. Al posto del figlio, si sa, Abramo immolò l’ariete che l’angelo, nella tela caravaggesca, gli indica con altrettanta decisione, mentre l’animale resta impigliato con le corna in un cespuglio.
Il rosso acceso della veste che cinge i fianchi di Abramo è il colore che Caravaggio sempre usa per dare forza alle sue figure. E in questo caso ci suggerisce di guardare ad Abramo quale esempio di fede assoluta in Dio che lo ha ricompensato con una discendenza numerosa “come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare”. Oracolo del Signore.