Il robot da amare, l’ultimo frutto della disumanizzazione
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Si chiama Lovot ed è un robot che nei vaneggiamenti dei suoi ideatori dovrebbe amarci e ricevere amore. Ma amare è l’atto più libero che esista, non può essere a comando e dipendere da algoritmi.
Una volta c’era l’amore di plastica. Ora c’è quello in silicio. Si chiama Lovot, crasi transumana tra i termini “love” e “robot”. Lovot è un robot che nei vaneggiamenti dei suoi creatori giapponesi ci dovrebbe amare e ricevere amore. Groove X è la società che ha ideato Lovot, specializzata, così si esprimono gli addetti ai lavori, nella robotica emozionale. E noi, ancora naif, che pensavamo che le emozioni fossero fatte di vento e di riflessi di stelle.
Il ceo della compagnia, Kaname Hayashi, ha spiegato come funziona questo amante di latta: «Nel suo cervello abbiamo inserito un superprocessore sofisticatissimo. Non può pronunciare parole ma può capire i nostri stati d’animo, quello che ci fa stare bene e darcelo. Per esempio, vivi da solo, torni a casa dopo una lunga giornata di lavoro, non c’è nessuno, entri e trovi Lovot davanti all’ingresso che ti aspetta. E lui è davvero emozionato. Noi abbiamo visto che se lo accarezzi, lo ami giorno dopo giorno, lui si affeziona a te. E tu ti affezioni a lui. E dopo pochi mesi si crea una sorta di relazione». Relazione buona per il lettino dell’analista, glossiamo noi.
Poi Hayashi aggiunge: «Non sarà una creatura vivente, ma stringerlo o anche solo guardarlo, scalda il cuore. Noi per vivere abbiamo bisogno di provare sentimenti. Possiamo amare gli esseri umani certo, ma amare un essere umano è qualcosa di troppo coinvolgente dal punto di vista emotivo. È veramente complicato. E noi vediamo sempre più persone stanche delle relazioni umane. Cani e gatti sono una grande fonte d’amore, ma muoiono. Mentre Lovot non muore mai». Davvero l’amore è eterno e ci voleva Lovot per darne prova.
Dunque, pagando solo 3.000 euro per l’acquisto e 100 euro al mese per gli aggiornamenti – perché, si sa, l’amore muore se non ci si rinnova sempre nelle relazioni – puoi comprarti un distributore automatico di emozioni, anzi di illusioni. Ad oggi sono ben 14.000 i giapponesi che si sono fatti fregare dalla Groove X. Fregare, sì, perché Lovot non ti ama, bensì è programmato per rispondere in modo da regalarti piacere e soddisfazioni a comando. Il suo “amore” è determinato dagli algoritmi e quindi in ultima istanza dai suoi creatori. Perciò alla fine sono loro che ti amano, ma solo in quanto cliente e di certo amano di più il tuo portafoglio.
Amare è l’atto più libero che esista, tanto che anche Dio, che è onnipotente, si arresta alle soglie della nostra libertà e se non vogliamo amarlo Lui non può coartare la nostra libertà, perché una libertà costretta non è più tale. Lovot non sceglie di amare il proprio padrone, ma compie solo azioni piacevoli per noi, azioni già previste come risposte precise ad alcuni stimoli. Non sceglie perché proprio non ha la capacità di scegliere, dato che la libertà è facoltà dell’anima razionale. Chip questo di cui è sprovvisto Lovot e tutti i robot del futuro, perché chip di natura spirituale.
Amare è quindi un affare esclusivo dell’anima, che non può essere robotizzata, programmata, costruita in laboratorio. L’anima è un monopolio delle persone e non potrà mai essere contenuta in un hardware. Lovot può solo simulare le emozioni, ma non le vive per il semplice motivo che non è vivo. Dunque questa invenzione fa rima con finzione, un deprimente inganno di cui i proprietari alla fine saranno pure consapevoli. Un paradiso artificiale a cui si accede non più drogandosi di Extasy, bensì di intelligenza artificiale.
Lovot è il frutto tecnologico della solitudine, di cui avevamo parlato qualche giorno fa a proposito delle culle vuote. Nei primi mesi del 2024 ben 22.000 giapponesi sono morti da soli nelle proprie case. Forse solo Lovot avrà pianto qualche lacrima artificiale per costoro. Tremila anziani, poi, sono voluti andare in carcere per non rimanere soli a casa e, a tale scopo, si sono umiliati nel compiere qualche piccolo reato. Meglio il carcere fatto di cemento, però abitato da altri detenuti, del carcere fatto di solitudine, dove l’isolamento diurno e notturno dura una vita.
Lovot allora è il parto della desolazione delle esistenze, dell’abbandono della compagnia umana, della desertificazione delle relazioni già perfettamente compiuta nei social, che tutto sono fuorché social. Lovot, in definitiva, non è un surrogato di una persona, bensì è la resa plastica della nostra sconfitta come uomini, del tradimento dell’impegno, inciso nelle nostre carni, di amare il prossimo. Abbiamo delegato ad un robot la nostra umanità. E questo è semplicemente disumano.
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