Il ritorno della sinistra di lotta e di governo
Renzi incontra gli imprenditori e il gotha della finanza a Firenze. E intanto, a Roma, un pezzo del suo partito, assieme all'estrema sinistra, si unisce alla manifestazione dei sindacati. Contro le sue politiche di governo. Come ai tempi di Prodi, la sinistra è sia al governo che nelle piazze.
Il mondo della sinistra è profondamente lacerato in queste ore. Il Pd è spaccato in due: da una parte, chi parteciperà alla Leopolda 2014, la kermesse organizzata a Firenze dall’establishment renziano e che ospiterà duecento fra parlamentari, imprenditori e personaggi del mondo della cultura e delle professioni; dall’altra, chi aderirà allo sciopero contro le politiche governative in materia di lavoro, promosso a Roma dai sindacati Cgil e Fiom.
Che senso può avere tale divaricazione tra le due anime della sinistra, quella più operaista da un lato e quella più radical chic dall’altra? Secondo alcuni attenti osservatori è il preludio alla scissione interna della minoranza più ideologica del partito, che ritiene troppo liberali e poco di sinistra le politiche del governo Renzi.
Negli ultimi mesi il solco tra le due componenti, al di là dei proclami unitari, è diventato sempre più profondo. Civati e Fassina imputano a Renzi di marginalizzare ogni voce di dissenso e di gestire in modo autoritario il partito. Su posizioni più sfumate, ma ugualmente critiche nei confronti dell’attuale segretario, anche Cuperlo, D’Alema e Bersani. Ma al di là delle dispute sui massimi sistemi, nella galassia postcomunista la vera battaglia è sulle risorse finanziarie del partito.
Renzi si è di fatto costruito un suo partito parallelo, la Leopolda, che assorbe denaro fresco da tanti simpatizzanti facoltosi e attinge in misura consistente risorse finanziarie pubbliche e private. Le fonti di tali finanziamenti non sono sempre trasparenti perché alcuni finanziatori preferiscono rimanere anonimi. Fatto sta che proprio in un momento storico in cui gli iscritti al Pd calano e quindi per i dipendenti delle sedi del partito cominciano ad esserci problemi di stabilità occupazionale, il premier preferisce far affluire somme cospicue in una realtà associativa tutta sua.
D’altra parte, il controllo delle sedi e dei locali del vecchio Pci-Pds-Ds-Pd rimane ancora saldamente nelle mani della vecchia guardia, ed è per questo che il premier ha preferito alimentare un contenitore tutto suo, con una squadra di persone a lui fedeli, pescate nella società civile, nel mondo delle professioni e in quello della politica.
Quest’edizione della Leopolda, che apre i battenti oggi e si concluderà domenica, costerà due milioni di euro, secondo alcuni, trecentomila euro secondo altri. Ma non è dell’entità dell’evento che occorre discutere, bensì dello spirito con cui viene promosso. Si tratta del classico raduno di truppe renziane che forse un premier avrebbe fatto bene a sospendere quest’anno e per tutti gli anni nei quali sarà al governo.
Il parallelismo con Enrico Letta è calzante. Per molti anni l’ex premier ha promosso a fine agosto in provincia di Trento un think thank di tre giorni, chiamato Vedrò, nome della Fondazione che ha organizzato l’evento e che ne ha alimentato l’ampio circuito di sponsorizzazioni e di contributi volontari da parte di aziende e singoli stakeholders. Quando Letta, nel 2013, è diventato premier, ha preso formalmente le distanze da quel network, tant’è vero che l’edizione dell’agosto di quell’anno di Vedrò è stata cancellata. Per evitare sbandamenti nell’azione di governo e strumentalizzazioni di un evento da sempre trasversale, l’ex premier ha correttamente sospeso Vedrò e si è dedicato a tempo pieno al governo, canalizzando l’aggregazione politica solo nella direzione del suo partito, il Pd.
Oggi Renzi, pur essendo arrivato a Palazzo Chigi otto mesi fa, non ha ritenuto opportuno smontare o quanto meno porre in naftalina la sua creatura, la Leopolda, che ha ormai 4 anni di vita, e al contrario intende utilizzarla come veicolo alternativo di aggregazione ed elaborazione politico-partitica.
Forse ha ragione chi ritiene che lui piuttosto voglia smontare il Pd o demolirlo e ricostruirlo a sua immagine e somiglianza, cambiandogli nome, rendendolo un partito centrista in grado di assorbire gran parte dei consensi berlusconiani, ed esautorando definitivamente la nomenklatura che per decenni ha gestito il più importante partito della sinistra italiana.
Non sarà facile, perché questo suo disegno rischia di rivitalizzare l’anima filosindacale del suo partito, che non a caso oggi sfilerà per le vie di Roma accanto a Camusso e Landini. In piazza ci saranno Civati, Fassina, Rosi Bindi e altri esponenti della minoranza interna al Pd. Singolare che anche questa volta esponenti della sinistra, dopo aver votato per disciplina di partito una riforma varata dal loro governo, manifestino contro quella stessa riforma chiedendone la revisione o l’abrogazione. Era già successo durante il governo Prodi della legislatura 2006-2008, quando alcuni ministri contestavano le scelte che avallavano in consiglio dei ministri e in Parlamento. Oggi la storia si ripete in modo altrettanto imbarazzante. Bersani, D’Alema e Cuperlo non saranno oggi in piazza ma hanno già lasciato intendere che ci sarebbero andati volentieri. Non lo faranno solo per evitare strumentalizzazioni e letture dietrologiche dei loro gesti.
Il Pd è dunque una polveriera pronta ad esplodere alla prima occasione. Certamente le divisioni in materia di lavoro e di scelte di politica economica tra le differenti (e inconciliabili) anime della sinistra potrebbero diventare il definitivo detonatore per scissioni e ricomposizioni dell’attuale quadro politico.