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SIRIA E AFGHANISTAN

Il ritiro degli Usa: nel loro interesse nazionale

Dopo il ritiro di 2mila militari dalla Siria, Trump ne richiama 7mila dall'Afghanistan. Il Segretario alla Difesa Mattis rassegna le dimissioni. Ma Trump rispetta le sue promesse elettorali e gli Usa, produttori energetici di primo piano, non hanno più interesse a combattere per la stabilizzazione del Medio Oriente allargato.

Editoriali 22_12_2018
Il dimissionario Jim Mattis

Dopo il ritiro dei 2mila militari schierati in Siria, Donald Trump ha annunciato di voler dimezzare anche i 14mila militari dislocati in Afghanistan. Verranno rimpatriati all’inizio del nuovo anno 7.000 militari, ha affermato un funzionario del Dipartimento della Difesa confermando quanto anticipato dal Wall Street Journal.

Delle forze schierate da Washington in Afghanistan 5.500 militari sono assegnati all'operazione antiterrorismo Freedom Sentinel e 8.500 all'operazione Resolute Support della Nato a cui partecipano anche 8.500 militari alleati provenienti da 37 Nazioni (800 gli italiani). Il ritiro di forze così consistenti inverte la tendenza avviata proprio da Trump per un moderato rafforzamento delle truppe alleate in Afghanistan e inciderà probabilmente sulla disponibilità degli alleati a mantenere gli impegni militari a Kabul. Di fatto gli Usa continuano in Afghanistan una politica contraddittoria iniziata con l’amministrazione Obama: prima chiese il potenziamento fino a 150mila militari delle forze alleate, poi Obama ordinò il ritiro a partire dal 2011; in seguito Trump chiese un maggior impegno alla Nato per poi annunciare il rapido disimpegno di Washington. Di fatto l’ennesima riduzione delle forze Usa e Nato, che affiancano e addestrano le truppe afghane, favorirà il successo dell’offensiva talebana mettendo in difficoltà il governo di Kabul che ha perso il controllo di oltre la metà del territorio nazionale.

Non è chiaro se, ritirate le truppe, Trump vorrà valutare la proposta di inviare a Kabul un esercito di contractors da affiancare alle truppe afghane: ipotesi già balenata nel 2017 ma pesantemente censurata dal Pentagono. Non sorprende quindi che la decisione di ritirare tutte le forze in Siria e di dimezzare quelle in Afghanistan abbia provocato ieri l’annuncio delle dimissioni del segretario alla Difesa James Mattis.

Il ritiro da conflitti e aree di crisi non può piacere ai militari che temono da un lato l’affernmarsi di Russia, Iran e altre potenze ruivali, dall’altro di subire tagli alla spesa militare che nel 2019 raggiungerà il livello record di 750 miliardi di dollari. “Ho avuto il privilegio di servire questo paese. Sono orgoglioso dei progressi degli ultimi due anni", il presidente Donald Trump merita un segretario alla Difesa con "idee che sono allineate alle sue", afferma Mattis nella lettera di dimissioni consegnata alla Casa Bianca. Mattis lascerà ufficialmente l’incarico il prossimo 28 febbraio dopo poco più di due anni al Pentagono ma al di là delle valutazioni i politiche sull’ennesimo membro dell’Amministrazione Usa che lascia (o perde) l’incarico, le scelte di Trump sembrano rispondere a un progetto ben preciso.

Sul piano elettorale il ritorno a casa di circa 10mila militari piacerà all’elettorato del presidente, tradizionalmente isolazionista. Inoltre il presidente ha più volte sottolineato che tocca ora agli alleati degli Stati Uniti pagare un prezzo più alto per la sicurezza. Difficile però immaginare che gli europei restino in Afghanistan (o in Siria) a rimpiazzare le forze di Washington. Del resto i ritiri più rilevanti compiuti negli ultimi anni dagli Stati Uniti sono stati firmati da Barack Obama in Iraq e Afghanistan ed entrambi hanno creato le basi per nuove ondate di destabilizzazione: l’affermarsi dello Stato Islamico in Medio Oriente e la rivincita dei talebani in Afghanistan. Al di là del colore delle amministrazioni che su succedono, gli interessi degli Stati Uniti sono decisamente mutati e appare chiaro che Washington non ha più alcun interesse a combattere conflitti per stabilizzare aree lontane.

Per gli Stati Uniti, ormai affermata potenza energetica il cui export petrolifero è superiore a quello del Kuwait, il caos in Medio Oriente rappresenta un’opportunità per potenziare le proprie esportazioni di greggio. In termini strategici e geopolitici l’instabilità delle regioni asiatiche, dal confronto tra le potenze regionali alla minaccia jihadista, costituirà una spina nel fianco per tutti i competitors di Washington: Russia, Cina ed Europa in testa. Lasciare che “siano altri a combattere” al posto degli americani, come ha sottolineato Trump in un tweet, non è un sintomo di debolezza o di scarsa avvedutezza, ma risponde perfettamente agli interessi degli Stati Uniti.