Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Vincenzo Grossi a cura di Ermes Dovico
ANNIVERSARIO

Il Requiem per Umberto I: tripudio di motivi cristiani

Una Messa di Requiem per sole voci fu commissionata per commemorare l’anniversario della nascita di Umberto I, assassinato 120 anni fa. Nella composizione dell'autore, Ildebrando Pizzetti, «non v'è contrapposizione di vita e di morte, ma lirica esaltazione di vita eterna».

Cultura 29_07_2020

Centoventi anni fa, il 29 luglio 1900, moriva a 56 anni, assassinato da un anarchico italo-americano a Monza, il secondo sovrano d’Italia, il cui regno durò 22 anni: Umberto I (1844-1900).

Dopo una formazione soprattutto militare, nel 1868 sposa la cugina Margherita di Savoia, da cui ha un figlio, il futuro Vittorio Emanuele III. Quanto alle relazioni con altri Stati, egli rafforza i rapporti con Austria-Ungheria e Germania attraverso la Triplice Alleanza (1882) e sostiene l’espansionismo coloniale in Africa (acquisendo Somalia ed Eritrea). Di fronte ai problemi di carattere interno egli è ancora più autoritario di suo padre, Vittorio Emanuele II, e appoggia la politica repressiva di Francesco Crispi, due volte primo ministro, e dei governi che seguono, alimentando la "crisi di fine secolo", caratterizzata da leggi liberticide e tensioni sociali in tutta l’Italia.

Umberto I, re autoritario e «buono»? L’ascesa dei Savoia lungo la storia dalla contea fino al regno? I re divenuti poi costituzionali di Piemonte e d’Italia? Le turbolenze provocate dalla "questione romana", sorta nel 1870 con l’annessione di Roma al Regno d’Italia sotto la dinastia di Casa Savoia?

Lasciamo ad altri queste polemiche mai del tutto risolte e profittiamo di questo anniversario per parlare della Messa di Requiem per sole voci, da quattro a dodici, di Ildebrando Pizzetti (1880-1968). Commissionata dalla Reale Accademia Filarmonica Romana per commemorare l’anniversario della nascita del defunto re Umberto I, fu scritta tra il 1° novembre 1922 e il 2 gennaio 1923 e, sotto la direzione di Alessandro Bustini, fu eseguita per la prima volta il 14 marzo 1923 davanti a Vittorio Emanuele III, alla sua corte e al compositore, nella basilica romana di Santa Maria ad Martyres, l’antico Pantheon. Nella cappella semicircolare orientale del bellissimo tempio si trova la tomba del secondo re d’Italia, ideata dall’architetto Giuseppe Sacconi ed eseguita da Guido Cirilli, suo discepolo.

Così rifletteva Pizzetti nel 1949, alludendo all’inaspettata morte della sua amata prima moglie, avvenuta nel 1920: «Non so se non essendovi stato sollecitato avrei mai scritto una Messa di Requiem. Certo è che quando la scrissi ero in uno stato d’animo che mi rendeva più che mai sensibile alla tremenda grandezza del suo testo. Più volte mi son trovato a domandarmi il perché del mio ritornare, di tanto in tanto, alla composizione di musica corale su testi religiosi. Anelito al poter credere in una realtà ultraterrena che la mia mente non riesce a concepire? Speranza di pace e di conforto? Non so. O forse non è mai stato - per disperazione di quella certezza che non riesco a possedere - non è mai stato altro che un voler cercare compagnia, in una espressione corale, a un sentimento di rassegnazione? Rassegnazione a non poter comprendere né il perché di questa vita né il mistero di ciò che seguirà…fosse stato almeno questo! Cantare in coro parole alte e solenni: non solo per sentirsene consolato, ma anche, se possibile, per dare un poco di consolazione ad altri» (B. Pizzetti, Ildebrando Pizzetti: cronologia e bibliografia, La Pilotta, 1980, p. 204).

Questo lavoro del compositore parmigiano - un culmine della sua coralità sacra - si articola, per circa trenta minuti di musica, in cinque movimenti, che comprendono sette testi della Messa dei defunti: il «largo, non lento» Requiem, l’antifona d’ingresso a cui è unita l’acclamazione Kyrie, a cinque voci; il «sostenuto, non molto» Dies iræ, la varia, complessa e sviluppata sequenza, che inizia a quattro voci e termina a otto; il «chiaro e spazioso» Sanctus, l’Inno Serafico scritto per dodici voci in tre cori, uno femminile e due maschili, a volte alternati, a volte sovrapposti; il «calmo e dolce» Agnus Dei, la pacifica e intima ma breve invocazione (soltanto 29 battute), a quattro voci; il Libera me, il responsorio finale pieno di fiduciosa speranza, a cinque voci, da cantarsi «con fervore profondo», come indica la didascalia prescritta dall’autore. Sono omessi il graduale (Requiem æternam), il tratto (Absolve, Domine), l’offertorio (Domine, Iesu Christe), il communio (Lux æterna) e l’antifona finale (In paradisum).

È una partitura che rivela in filigrana, da una parte, la riforma ceciliana e, dall'altra, echi verdiani. Quanto alla prima, Pizzetti aveva appreso dal suo maestro, Giovanni Tebaldini (1864-1952), all’Istituto musicale di Parma, le caratteristiche della musica sacra, secondo la concezione della Chiesa cattolica, delineate ancora validamente nel motu proprio di san Pio X Tra le sollecitudini del 22 novembre 1903, primo anno del suo pontificato, contro gli influssi esercitati dalla musica profana, specie operistica. Quanto al cigno di Busseto, è noto l’apprezzamento che Pizzetti ha sempre nutrito nei confronti dell’opera di Giuseppe Verdi (1813-1901) e in particolare della sua Messa di Requiem, scritta nel 1874 in memoria di Manzoni.

La Messa di Requiem di Pizzetti si richiama al canto gregoriano (di cui abbondantemente cita melodie e usa scale) ma anche alla polifonia romana e veneziana, a Giuseppe Verdi, alla musica tardo-romantica, alla scuola francese contemporanea e infine alla tarda stagione di Robert Schumann (con il Sanctus del suo Requiem per coro e orchestra, op. 148, del 1852, il Sanctus di Pizzetti condivide notevoli affinità).

Un lavoro magistrale per nobilissima ispirazione e realizzazione, la cui commozione - come bene ha detto il critico musicale Guido Maria Gatti - «non s'esprime in grida e vociferazioni ma non si raggela nella retorica formale: è un canto di fede e, per la parte ch'è propria del rito funebre, una serena contemplazione della morte. Non v'è dramma, nel senso corrente, in queste musiche perché non v'è contrapposizione di vita e di morte, ma lirica esaltazione dei motivi cristiani di vita eterna e risurrezione; la città di Dio è immagine ideale della città terrena» (Citato da C. Marinelli, in Programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia, Roma, 9 novembre 1958).