Il raid Usa e l'assordante silenzio dell'Ue
Mike Pompeo, segretario di Stato americano, nella prima conferenza stampa rilasciata dopo l’uccisione del generale Soleimani, ha dichiarato di aver discusso il raid con gli alleati. E di non aver avuto soddisfazioni dagli alleati europei. L'Ue non parla con una sola voce. Soprattutto: non parla. Le cause del silenzio sono politiche.
Mike Pompeo, segretario di Stato americano, nella prima conferenza stampa rilasciata dopo l’uccisione del generale Soleimani, ha dichiarato di aver discusso il raid con gli alleati regionali e di aver avuto un’ottima collaborazione da tutti loro. Non così per l’Europa. Pompeo non specifica oltre, ma è evidente che qualcosa sia andato storto nei rapporti fra Usa e alleati europei. Soprattutto è “strano” il silenzio europeo su una vicenda così importante: neppure una dichiarazione da parte della nuova presidente di Commissione, Ursula von der Leyen, né dell’Alto Rappresentante della politica estera europea, Josep Borrell. Solo una dichiarazione da parte del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, talmente vaga da risultare incomprensibile: “Il ciclo di violenza, provocazioni e ritorsioni a cui abbiamo assistito in Iraq nelle ultime settimane deve finire. Un'ulteriore escalation deve essere evitata a tutti i costi”. Nel linguaggio diplomatico, come mostra tutta la storia del Medio Oriente, quando si parla di “ciclo di violenza” è perché non si vuole indicare l’aggressore, perché non c’è accordo politico su chi debba essere accusato di aggressione.
Da quel che si sa dei colloqui americani con gli alleati europei, questi hanno riguardato singole nazioni: Francia e Regno Unito (le due potenze al Consiglio di Sicurezza dell’Onu) e Germania. L’Italia, pur avendo un contingente sul terreno in Iraq, addestratori nella guerra al terrorismo dell’Isis, non è stata neppure informata. C’è da dire anche che il governo Conte, benché non informato di un raid importantissimo che riguarda anche la nostra sicurezza, non ha neppure pensato di protestare formalmente, almeno finora, almeno per quanto ne sappiamo noi comuni cittadini. Il che vuol dire che questo silenzio, dell’Italia, così come del resto dell’Europa, non è tanto un tacito disaccordo, quanto un esplicito disinteresse. Un disinteresse che non è tanto motivato da ignoranza quanto da un disaccordo interno, interno agli stessi partiti, che impedisce di prendere chiare posizioni in politica estera. Ad esempio, il silenzio di Di Maio, durato due giorni, stride con l’attivismo di Di Battista, che ha subito condannato gli Usa (se non altro perché è in partenza per l’Iran). L'equilibrismo di Zingaretti, a capo dell'altra forza di governo, stride con la condanna anti-Usa che emerge dalle interviste rilasciate da D'Alema. All'opposizione, la prudenza della Meloni, non coincide con l’attivismo della sua stessa base, solidale con il defunto generale Soleimani. E fa letteralmente a pugni con le dichiarazioni di Salvini, il primo e finora unico a complimentarsi senza remore con il presidente Trump.
L’Italia è in buona compagnia. Nemmeno negli altri Paesi europei ci sono idee più chiare. La Germania, che ha meno interessi nel Medio Oriente, ha cautamente appoggiato l’azione americana, anche se si sa che Spd, Cdu/Csu e Verdi hanno visioni opposte in politica estera. La Francia, che ha più interessi nella regione, ha altrettanto cautamente avversato il raid americano, non per pacifismo o vicinanza a Teheran, ma perché Macron si distingue per essere l’antagonista e competitore di Trump in Europa. Ma manca, appunto, una presa di posizione europea. L’Ue ha dimostrato, nella storia recente, una certa efficacia solo in due settori: nella propria area, garantire stabilità nei Paesi che aderiscono all’Unione (o sono prossimi ad aderirvi); fuori dalla propria area, promuovere accordi internazionali multilaterali. Per quanto riguarda il Medio Oriente, l’Ue ha impostato tutta la sua politica sulla base degli accordi di Oslo, siglati proprio mentre nasceva l’Unione. Secondo lo spirito di Oslo, Israele e Palestina avrebbero dovuto diventare “due popoli in due Stati”. Per quanto riguarda l’Iran, l’Ue è stata garante degli accordi di Vienna, con cui Teheran si sarebbe impegnata in un rallentamento del suo programma nucleare, in cambio della fine delle sanzioni economiche.
Gli accordi di Oslo sono però un lascito del passato, sia i palestinesi che gli israeliani sanno che sono ormai morti. L’Ue ha finora cercato invano di resuscitarli, facendo pressioni su una sola parte (Israele). Ma Israele ha perso fiducia nell’Ue, proprio perché vede un accanimento nel chiedere concessioni che non ha equivalenti nella controparte (la futura Palestina). Trump, con il suo appoggio incondizionato al governo di Gerusalemme, ha permesso a Israele di fare a meno dell’Ue. Piuttosto il governo Netanyahu si rivolge a Mosca, non a Bruxelles. E anche l’accordo sul nucleare iraniano è ormai lettera morta: gli Usa si sono ritirati perché Israele ha dimostrato che l’Iran non lo stava rispettando. Anche in questo caso l’Ue si accanisce nel difendere una causa già persa.
Soprattutto: l’Ue si concentra sulla sola questione mediorientale, sul conflitto arabo-israeliano, attorno a cui fa ruotare tutto il resto. Forse perché, prigioniere del loro retaggio post-colonialista, le cancellerie europee sono tuttora convinte, come lo erano nella seconda metà del Novecento, che in Medio Oriente si combattano ancora guerre di liberazione nazionale. E che tutta la violenza della regione sia ancora causata dall'irrisolta spartizione della Palestina britannica, dalla denuncia araba della "occupazione" ebraica. Anche l’accordo sul nucleare iraniano viene letto come possibile chiave di volta per la questione mediorientale: allontanando la minaccia nucleare contro Israele, si pensava di indurre il governo di Gerusalemme a fare più concessioni alla controparte palestinese, per il suo futuro Stato.
Tuttavia, questa vera ossessione per la questione mediorientale è anch’essa superata dai tempi. Non è più il conflitto arabo-ebraico a scaldare gli animi delle masse musulmane, bensì il millenario conflitto fra sciiti e sunniti, tutto interno al mondo islamico. Misure come quelle del trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, anche in un passato recente, avrebbero scatenato un putiferio in tutto il mondo islamico. Oggi passano quasi sotto silenzio, perché è un altro conflitto che interessa, evidentemente: quello che si combatte su vari fronti, in Libano, Siria, Iraq, Yemen, sempre fra sciiti sostenuti dall’Iran e sunniti sostenuti dalle monarchie del Golfo (lo schema è quello, pur con mille eccezioni, come il rapporto di alleanza fra Qatar e Iran e la politica opportunista della Turchia di Erdogan). Si combatte ancora ai confini di Israele, ma come conseguenza di altre guerre circostanti, non è più quella la causa principale della violenza nella regione.
Nel nuovo conflitto gli Usa di Trump hanno, da subito, scelto la loro parte: con i sunniti contro l’Iran. Nel caso specifico dell’Iraq, anche con gli sciiti dissidenti contro quelli fedeli a Teheran. L’Ue, al contrario, è rimasta ferma nella sua intenzione di voler porre fine a una guerra del passato, difendendo lo spirito di accordi che ormai sono solo sulla carta. E, proprio a causa di una mancanza di chiarezza interna sulle sue intenzioni e obiettivi, non sa adattarsi al nuovo scenario, non sa (o non può) scegliere da quale parte schierarsi.