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Ora di dottrina / 155 – Il supplemento

Il Proprio della seconda domenica di Quaresima

Per la seconda domenica di Quaresima, il Proprio gregoriano delle due forme del Rito romano è molto diverso: in comune c’è solo l’Offertorio. Nel Proprio gregoriano ogni momento liturgico scandito dall’antifona è intimamente legato ad uno stile compositivo.

Catechismo 16_03_2025

La prima domenica di Quaresima ha riportato una perfetta sovrapposizione del Proprio gregoriano per entrambe le forme del Rito romano; non così la seconda, dove la parte comune si limita all’Offertorio, sebbene in entrambi i casi il Vangelo della liturgia del giorno riporti il mistero della Trasfigurazione del Signore.

Il Rito romano antico esordisce con l’Introito «Reminíscere miseratiónum tuárum, Dómine […] ne unquam dominéntur nóbis inimíci nóstri: líbera nos Déus Israel ex ómnibus angústiis nóstris – Ricordati, Signore, delle tue misericordie […] che i nostri nemici non dominino su di noi: liberaci, Dio d’Israele». Anche il Graduale Tribulatiónes córdis méi è un grido al Signore per essere liberati dalle tribolazioni che si sono moltiplicate, il clamore di chi riconosce di essere misero e stremato; il Tractus Confitémini Dómino loda il Signore per la sua bontà, magnifica la sua potenza e lo supplica di ricordarsi del suo popolo e di visitarlo per portargli quella salvezza che solo Lui può dare. Questi accenti ben si addicono allo spirito della Quaresima, ma la loro particolarità risalta maggiormente se si tiene presente che nell’Ufficio del Mattutino del Rito romano antico, si presenta la figura di Giacobbe, il grande patriarca d’Israele che, dopo aver sottratto la primogenitura al fratello Esaù, vive una vita continuamente esposta al pericolo e alle angustie. Giacobbe diviene così l’esempio per eccellenza della pazienza nelle prove e del suo abbandono in Dio. Si tratta dunque di un esempio di profonda unione tra le due anime principali del culto pubblico della Chiesa, l’Ufficio divino e la Celebrazione eucaristica, molto caratteristico del Rito romano antico.

Per quel gioco di richiami che caratterizza il Proprio gregoriano grazie alla sua struttura formulare, possiamo notare che l’inizio dell’Introito Reminíscere, antifona che si sviluppa sul IV modo, è pressoché identico a quello che ritroviamo nell’Introito Resurréxi (anch’esso sul IV modo) del giorno di Pasqua. La supplica di chi è nell’angoscia è già illuminata dalla speranza della Pasqua e, d’altra parte, la gioia pasquale porta sempre con sé il ricordo dei lacci da cui siamo stati liberati. Anche il Communio sottolinea l’aspetto dell’invocazione, che nel pericolo diviene un vero e proprio grido: «Intéllige clamórem méum: inténde vóci oratiónis méæ, Rex méus et Déus méus: quóniam ad te orábo, Dómine – Ascolta il mio grido, ascolta la voce della mia preghiera, mio Re e mio Dio, perché a te mi rivolgo, Signore».

Nel Rito romano riformato, il richiamo alla figura di Giacobbe, come anche questa “anticipazione” della Pasqua, vanno perduti, mentre si guadagna una maggiore compattezza interna tra il Proprio e il Vangelo della Trasfigurazione. L’Introitus e il Communio infatti sono direttamente legati al Vangelo. L’introito Tibi dixit si colloca all’interno della Quaresima come un grande movimento di ricerca più viva del volto del Signore: «Tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum Dómine requíram: ne avértas fáciem tuam a me – A te ha detto il mio cuore: ho cercato il tuo volto, il tuo volto, Signore, cercherò: non allontanare da me il tuo volto». L’antifona non è originale, ma è stata recuperata da codici antichi, che però la ponevano nella feria III della seconda settimana di Quaresima.

Non può non colpire la sospensione creata sulle prime due parole (tibi dixit), creata dalla ripetizione della nota do, che ha la funzione di preparare la più ornata affermazione quæsívi vultum tuum, che costituisce il cuore dell’antifona; enfasi che viene evidenziata anche dalla ripetizione verbale immediatamente successiva (vultum tuum Dómine requíram). Il gioco creato dall’enfasi modale da una parte e da quella verbale dall’altra raggiunge l’obiettivo di porre il volto del Signore costantemente presente. Sottolineatura ulteriore è data da una sorta di chiaro-scuro musicale, laddove l’antifona conclude con note più gravi proprio quando supplica il Signore di non nascondergli il suo volto.

Il Graduale Sciant gentes insiste sul tema della Trasfigurazione, chiedendo a Dio di manifestarsi così che «le genti sappiano che tu sei Dio, tu solo l’Altissimo su tutta la terra» e gli iniqui, che non conoscono il suo volto, siano invece spazzati via, come la polvere della terra quando, al soffio del vento, forma un mulinello o come la paglia. Come il Graduale, anche il Tractus di questa domenica è recuperato dalla Domenica di Sessagesima del Rito antico.

Il Communio ritorna nuovamente sulla Trasfigurazione, questa volta richiamando le parole del Signore, secondo il Vangelo di Matteo (17, 9): «Visiónem quam vidístis, némini dixéritis, donec a mórtuis resúrgat Fílius hóminis – Non riferite a nessuno la visione che avete visto, finché il Figlio dell’uomo non risorga dai morti». Come aveva correttamente fatto notare il maestro Fulvio Rampi, «la scelta suggerita dalla pertinenza testuale, in questo caso, è stata realizzata a spese di un altro principio, che potremmo definire di coerenza, ancor più importante se rapportato al canto gregoriano nel suo complesso. Il difetto di coerenza sta nella dissociazione tra forma e contesto liturgico, che la scelta di questa antifona finisce per provocare».

Nel Proprio gregoriano ogni tipologia di antifona ha uno stile caratteristico che la contraddistingue dalle altre; ad occhi chiusi, ovviamente dopo un po’ di familiarità, si è tranquillamente in grado di capire se quello che si sta ascoltando è un introito o l’antifona all’offertorio. Ogni momento liturgico scandito dall’antifona è dunque intimamente legato ad uno stile compositivo: questa è la meravigliosa struttura formale tipica del gregoriano. Il Communio è caratterizzato da uno stile semi-ornato, mentre nell’antifona Visiónem troviamo una “stonatura formale”, essendo uno stile sillabico o semplice (ad ogni nota corrisponde una sillaba, con rare o nessuna accumulazione). La ragione di questa stranezza sta nel fatto che si tratta di un’antifona che dai primi vespri di questa domenica (Rito antico) – e quindi da antifone che hanno tutt’altro stile – è stata trasferita nel proprio della Messa. Un’operazione infelice, che ha privilegiato l’aspetto del contenuto su quello formale. Ma nella liturgia, la forma è sostanza.



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