Il progetto jihadista esige una risposta dura
I casi dipersecuzione dei cristiani in Iraq e Nigeria non sono episodi isolati. C'è un disegno egemonico che sottovalutiamo. Difendere le comunità cristiane, intervenire contro i terroristi è una urgenza se si vuole salvare la stabilità mondiale.
Una “N” che a prima vista potrebbe essere scambiata per il faccino sorridente di uno smile: invece è una lettera in arabo, racchiusa all’interno di un cerchietto. Quella “N” sta per “Nasara”, seguace del Nazareno, cioè cristiano, cioè nemico da distruggere, da estirpare e sterminare. Impossibile non associare questo nuovo sfregio ai cristiani dell’Iraq con la Stella gialla, disegnata nelle città tedesche sulle abitazioni degli ebrei nella famigerata “Notte dei Cristalli”, il pogrom condotto dai nazisti nel 1938 che portò alla morte di centinaia di persone, alla distruzione di più di mille sinagoghe e di oltre 7500 negozi gestiti da ebrei. Il simbolo dell’infamia venne poi cucito sulle casacche a righe dei condannati nei lager.
Come quelle stelle, 75 anni dopo, la “N” è il marchio della vergogna che a Mosul, nuova capitale del califfato istituito dalle bande dei fondamentalisti islamici sunniti, compare sulle case dei cristiani a segnalarli come obiettivo da colpire: o se ne vanno oppure pagano una tassa di sottomissione al Califfato, cosa che comunque non gli garantirà salva la vita. Nel regno del terrore islamico, le abitazioni sono requisite e distribuite ai fiancheggiatori dell’Isis (lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante) e le forniture di cibo a prezzi calmierati e di gas negate alle popolazioni che non sono di osservanza sunnita. Verrebbe da gridare siamo tutti “Nazareni” (quante volte lo abbiamo fatto per i tibetani schiacciati dai cinesi, gli americani attaccati a New York da Bin Laden, gli ebrei massacrati dai kamikaze palestinesi o i palestinesi bombardati dagli israeliani e tutte le minoranze perseguitate della Terra, fino agli inuit dell’Alaska), ma sappiamo che nessuno muoverà un dito per quei poveri Cristi di nazareni che oggi a Mosul vengono messi in croce, come avvenne duemila anni fa, in nome di un dio sanguinario e inesistente, inventato solo per coprire la sete di dominio e potere.
Punizioni corporali, impiccagioni, crocifissioni ed esecuzioni di massa: questo è il modo con cui i jihadisti dello Stato islamico e del Levante mantengono l’ordine nel Califfato. Come sta scritto nella Carta dei Sedici Comandamenti che gli abitanti della seconda città irachena devono rispettare. C’è da rabbrividire a scorrere quelle Tavole della legge islamista dove si promette che "coloro che si oppongono alla volontà di Dio" saranno puniti "con l’esecuzione, la crocifissione, l’amputazione delle braccia o delle gambe, o l’esilio". All’articolo 6 si ricorda, poi, che "le moschee sono le case di Allah" e "si sollecita tutti i fedeli a compiere sempre nelle case di Dio le preghiere nelle ore stabilite". Nell’articolo 8 si vieta l’uso di alcol, tabacco e droghe. Le donne devono uscire per strada con il volto e il corpo completamente coperti dal niqab, a condizione che "lo spostamento sia necessario" e comunque autorizzato dal padre, dal fratello o dal marito e accompagnate da uno di loro. L’articolo 10 vieta qualsiasi manifestazione pubblica, perché contraria all’islam.
Contro i califfi del terrore, non si muoverà certo l’Onu, Michelle Obama non lancerà nessun tweet, le star di Hollywood faranno spallucce (mica ci sono le balene del Mar del Giappone da salvare) i caccia francesi non si alzeranno in volo come fecero con la Libia, tantomeno l’Europa, che da un pezzo ha dato un bel taglio alla sue già rinsecchite radici cristiane, promuoverà una mozioncina di condanna. Come nella Germania di Hitler, i cristiani oggi nel mondo, ma soprattutto nel Medio Oriente e nell’Africa musulmana, sono destinati allo sterminio e alla estinzione nel silenzio delle cosiddette nazioni civili.
Eppure quella “N” ci riguarda, è una sfida lanciata alla nostra fede, ma soprattutto alla nostra umanità, un avvertimento minaccioso di quello che potrebbe accadere a chi non si piega ai sanguinari sacerdoti del terrore e della sopraffazione. Una lettera che potrebbe essere tracciata anche sulla soglia delle nostre case, sull’uscio delle scuole che frequentano i nostri figli, sui muri delle nostre città come segno della rivolta, della resistenza pacifica ma tenace al male e alla schiavitù che per tanti nostri fratelli oggi ha il volto feroce del fondamentalismo islamico. Di cosa ha ancora bisogno questa rivolta per scattare, di quale altra nefandezza necessita la comunità internazionale per uscire dal suo torpore e da una criminale inattività?
“Oggi ci sono più testimoni, più martiri nella Chiesa che nei primi secoli, tanti più cristiani perseguitati”: ce l'ha ricordato Papa Francesco durante la messa celebrata a Casa Santa Marta il 30 giugno, nel giorno in cui si commemorano i santi protomartiri della Chiesa romana, uccisi sul Colle Vaticano per ordine dell’imperatore Nerone dopo l’incendio di Roma del 64 dopo Cristo. Una sferzata alla memoria a volte labile o distratta di una comunità cristiana diventata forse troppo debole e arrendevole di fronte all’avanzata di un potere aggressivo e totalizzante che incrocia il mitra con le sure del Corano, che mira a padroneggiare il mondo attribuendo al loro Dio questo sanguinario comandamento. Il buonismo anche di tanti pastori, propugnatori del dialogo a tutti i costi, dovrebbero dare un’occhiata a quel succede un po’ oltre i confini delle loro parrocchie. A quel che succede in Siria dove i cristiani vengono crocefissi dagli islamisti quaedisti, in Somalia, Kenya, Tanzania e Uganda. Ma soprattutto in Nigeria dove Boko Haram ha già ucciso più 10 mila cristiani e da anni massacra, sequestra, incendia e tortura chiunque pratica la fede cristiana o si opponga al suo folle progetto politico e religioso.
Solo un paio di mesi fa pareva che l’Occidente avesse avuto un soprassalto di vita quando i talebani neri rapirono in una sola volta 300 ragazze cristiane, strappate dalle loro case e deportate nella giungla. Le immagini di quel diavolo in turbante e kalashnikov, Abu Bakar Shekau, che puntava l’indice contro il mondo scatenò l’indignazione e la condanna generale. Per la prima volta, a denunciare i crimini di Boko Haram non c’erano solo i missionari o qualche associazione isolata: giornali, tv anche, opinionisti ma soprattutto i bei nomi dello star system uscirono dal loro dorato village per chiedere la liberazione delle ragazze. Ma come al solito, tutto finì con un cip, anzi con un tweet: quel #bringbackourgirls che lanciato da Michelle Obama rimbalzò da Hollywood fino ai vipponi e alle suffragette della nostra Cinecittà, eternamente pronti a mobilitarsi per una buona causa. Che ora, sembrano svaniti nel nulla o, probabilmente, stesi al sole su qualche spiaggia della Sardegna. Alla fine, la sciccosa mobilitazione in modovisione ha ottenuto solo il bel risultato di aumentare le quotazioni degli islamisti alla borsa del terrore, mentre le ragazze rapite sono ancora lì, in balia dei loro aguzzini e dei serpenti velenosi della foresta.
Ma il tempo non gioca a loro favore: constatazione drammatica, ma reale visti i precedenti: l’Onu, gli Usa e l’Europa ci hanno messo anni prima di inserire il gruppo jihadista nella lista nera del terrorismo internazionale. Permettendo così che l’organizzazione sfuggisse al controllo dei finanziamenti e dei conti su banche estere. Si sa, poi, che Boko Haram conta generosi supporter in molti Stati musulmani e viene rifornito di armi dall’Iran e dagli hezbollah. Con tali personaggi c’è poco da twittare o dialogare: la comunità internazionale deve saper rispondere con la stessa decisione, politica e, se necessario, anche militare, mostrare almeno per una volta le unghie e i denti. Ma subito, senza aspettare che funzionari e star rientrino dalle vacanze.