Il primo "cattivo maestro" è il pensiero debole
Il relativismo mette in discussione verità, bellezza, amore, bontà. Ma se vengono a mancare questi riferimenti, se non c’è una meta, il rischio e la fatica dell'educare non hanno senso. E i risultati si vedono. Come spiega nel suo libro Antonio Polito.
Oggi va di moda il pensiero debole. Questa non è una novità. Farsi portavoci di proposte forti appare agli occhi di tanti anacronistico, soprattutto nell’epoca del relativismo culturale, in cui sono messi in discussione la verità, la bellezza, l’amore, la bontà. Se vengono a mancare questi ultimi riferimenti, tutti riconducibili al campo della verità nei differenti campi (conoscenza e cultura, estetica, affettività, etica), decade ex abrupto anche la necessità dell’educazione. Il termine «educazione», infatti, ha in sé il verbo latino ducere che significa «condurre». Se non c’è una meta riconosciuta, se non esistono una bontà, una bellezza, una verità, un amore a cui essere educati, non ha senso il rischio dell’educazione. Al massimo ci potranno essere degli informatori o dei mediatori di conoscenza.
«Eppure, chi di noi padri, arrivato alla sua età, con la propria esperienza, può negare a se stesso la verità, e cioè che tutto intorno a noi ci dice che è l’educazione (intesa in un senso molto più ampio della semplice istruzione) il fattore cruciale per la riuscita di una comunità e, al suo interno, dei nostri ragazzi? E allora perché abbiamo completamente abdicato alla nostra funzione educativa per trasformarci in goffi sindacalisti dei nostri figli?». Da questa domanda parte l’interessante percorso del giornalista Antonio Polito che in Contro i papà analizza «come noi italiani abbiamo rovinato i nostri figli» (sottotitolo del libro).
«Abbiamo costruito un modello sociale ed economico tutto teso a rendere la vita facile ai nostri ragazzi […]. In nome dei nostri figli li abbiamo rovinati». Abbiamo costruito un lungo catalogo dei loro diritti, dal «posto di lavoro stabile» e «adeguato alle loro aspirazioni» alla possibilità di essere fuori corso all’università (che deve rigorosamente essere nel raggio di venti chilometri da casa). «I nostri figli non devono mantenersi agli studi, perché lo Stato chiede a ciascuno di loro soltanto tra i mille e i duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre in media ne spende settemila. Dunque a pagarli ci pensa la fiscalità generale, cioè le tasse pagate anche da chi i figli all’università non li manda». Tra l’altro il livello dell’università è sceso in maniera impietosa e i voti sono saliti. Ad essere deprezzato è il merito. Quanto più i titoli sono omologati ed uguali tanto più non contano nulla nella ricerca del lavoro.
Statistiche alla mano, l’Italia sembra sempre più il paese del buonismo, nel campo scolastico, che fino a qualche decennio fa ancorava ancora lo studente ad una salda cultura e che oggi, in nome di una presunta e non ben attuata modernità e innovazione, ha svenduto quel carattere culturale che molti Stati ci invidiavano. A scuola è lecito copiare e non scandalizza, anzi gli stessi genitori giustificano i figli affermando che tutti l’hanno fatto quando erano scolari. In altri paesi, come gli Stati Uniti, la copiatura è stigmatizzata e sono gli stessi studenti a denunciare chi copia, perché quest’atto è percepito come lesivo del valore del merito.
Se guardiamo alle statistiche relative a questi decenni, due domande sorgono naturali: che cosa hanno voluto lasciare i genitori ai figli? Come hanno investito i soldi? La scelta degli Italiani è stata finora chiara. La maggior parte dei genitori ha creduto che fosse più importante lasciare i mattoni ai figli piuttosto che investire sull’educazione, nel permettere a loro l’accesso a certe scuole o università. In altri Stati la scelta dei genitori è stata diversa, orientata a permettere al figlio un percorso di crescita, di educazione e di istruzione che gli avrebbe permesso poi di ricoprire posizioni importanti nella società.
I giovani di oggi sono figli di una generazione che discende da quel Sessantotto che ha ripudiato tutto ciò che era stato lasciato in eredità e ha gettato in una discarica «ogni principio di responsabilità e di autorità». La generazione dei padri di oggi è la prima che «ha disobbedito ai padri e ha obbedito ai figli».
«La colpa è nostra, ma, per essere onesti, è anche del secolo di cui siamo figli: il Novecento. Un secolo grandioso e terribile, in cui eventi epocali e teorie inebrianti ci hanno somministrato l’oppio della deresponsabilizzazione, stordendoci nell’illusione che non siamo noi i responsabili della nostra sorte, e facendoci così smarrire il senso del dovere». Le nuove dottrine che imperversano nel Novecento, dal pensiero di Freud al marxismo al darwinismo, attribuiscono la responsabilità delle azioni umane a forze nascoste o superiori, rispettivamente l’inconscio, il gruppo sociale, la lotta per la sopravvivenza e l’evoluzione. «Niente di ciò che siamo si può far risalire all’educazione che abbiamo ricevuto, all’esempio che ci è stato offerto, alla cultura in cui abbiamo vissuto. Ma tutto è Natura, tutto ci deriva dai nostri antenati e dagli istinti che si svilupparono nella lotta per la sopravvivenza del più forte». Se tutto deriva dalla Natura, allora l’educazione non serve più.
Con il Sessantotto si afferma un mondo in cui esistono solo diritti senza più doveri, in cui vige una libertà eslege, svincolata dalla verità e dalle leggi. L’autorità non è più riconosciuta, così come non viene riconosciuta l’esistenza di un punto di riferimento autorevole e stabile che ci permetta di crescere. Oggi «ci sono in giro altri adulti» afferma sempre Antonio Polito «che fanno danni non minori dei padri. Nel senso che li arrecano ad un’intera generazione di figli. Sono i cattivi maestri […] , gente che cioè insegna male, cose sbagliate, metodi approssimativi, idee perniciose. È il folto gruppo di quei reduci del Sessantotto i quali, invece che in politica e in azienda, hanno ottenuto il loro successo nell’accademia o nella comunicazione». I giovani apprendono dai loro discorsi in televisione se e perché si possa sperare o si debba disperare. Questi maestri sono come dei padri guru, che hanno un peso ancora più significativo dei padri biologici. I giovani, quando si distaccano dalla famiglia dal punto di vista emotivo e valoriale, trovano nel mondo questi adulti politicizzati, che non li capiscono, non li amano, anzi li odiano (anche se in apparenza non sembrerebbe) e li accusano di non volersi impegnare in politica come hanno fatto loro adulti alcuni decenni prima.
Anche se questo è il panorama odierno, non tutto è perduto. L’educazione e la libertà di educazione, infatti, rinascono laddove c’è un io che si pone di fronte agli altri e inizia a mostrare il fascino di un cammino e di un percorso e inizia a dire ai giovani: «Coraggio, camminiamo insieme. Vale la pena far fatica perché la meta da raggiungere è bella!». Questo è il vero maestro, che non si presenta come salvatore del mondo e dell’uomo, né tantomeno si atteggia a idolo, ma diventa compagno di strada. Allora il ragazzo si mette in cammino in una compagnia, certo della bontà del sacrificio. Altrimenti, ogni sforzo è vano e assurdo e niente vale davvero la pena.
Antonio Polito, Contro i papà, Rizzoli, Milano 2012