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Il premier tentato dal voto. Così Cottarelli se ne va

La tanto evocata “spending review” per il momento non si farà. Eppure Carlo Cottarelli commissario straordinario per la revisione della spesa pubblica, ha prodotto relazioni per 17 miliardi di risparmi. Rimarranno sulla carta. E Cottarelli lascia.

Politica 01_08_2014
Carlo Cottarelli

La tanto evocata “spending review” (revisione della spesa), varata dal governo Monti alla fine del 2012, avrebbe dovuto invertire la rotta dell’economia italiana, inaugurando tagli a spese improduttive e a privilegi non più sopportabili. Gli italiani furono terrorizzati dalle sforbiciate decretate da quel governo tecnico e che avrebbero dovuto svecchiare e snellire l’apparato statale, restituire maggiore produttività alla pubblica amministrazione e imprimere un’accelerazione ai processi di semplificazione dei processi decisionali. Sappiamo com’è andata a finire. Pochi, pochissimi e ininfluenti tagli, volti più che altro a massacrare il ceto medio e ad accrescere il divario tra ricchi e poveri, senza alcuna visione di riequilibrio sociale e intergenerazionale.

Dopo le elezioni e il sostanziale pareggio tra le principali forze politiche in competizione, nacque il governo tecnico presieduto da Enrico Letta, che si disperse in estenuanti e logoranti mediazioni su tutto e che puntò sulla decretazione d’urgenza e sul rinvio delle riforme strutturali. Nel novembre 2013, però, quell’esecutivo lanciò un segnale chiaro: la nomina di Carlo Cottarelli a commissario straordinario per la revisione della spese pubblica, incaricato di tradurre in azioni operative concrete le nobili intenzioni di cancellare enti inutili, azzerare voci di spesa financo stucchevoli, restituire produttività e meritocrazia alle aziende pubbliche. 

Cottarelli ha lavorato alacremente con una squadra di esperti che a marzo scorso ha prodotto 25 relazioni su altrettanti segmenti della spesa pubblica. Esistono ottomila aziende pubbliche (alcune di dubbia utilità), servite per decenni soprattutto ad alimentare un circuito perverso di rendite politiche e che hanno finito per appesantire in maniera devastante le casse dello Stato. Addirittura ce ne sono 2.761 che contano più amministratori che dipendenti. 

Nel 2015 la "spending review", nei piani di Cottarelli, dovrebbe consentire allo Stato di recuperare 17 miliardi di euro, ma si tratta di una valutazione alquanto illusoria, considerato che la sanità e le pensioni, voci che incidono in misura fortissima sulla lievitazione dei costi pubblici, sono praticamente uscite o non sono mai entrate nella manovra di riduzione della spesa. Quelle 25 relazioni contengono una sorta di road map ragionata e argomentata da economisti ed esperti di finanza pubblica che spiegano come finalmente tagliare la spesa improduttiva e come rivedere i costi della macchina dello Stato. Perché non è stato consentito a Cottarelli di tirare fuori quei dossier? Perché il governo Renzi non li ha sin qui pubblicati? Regna un clima di censura attorno a quelle ricette indicate dagli esperti, forse perché esse finirebbero per indurre il governo Renzi a scelte impopolari, ma indispensabili per evitare un naufragio, quello dell’economia italiana, sempre più incombente.

Perché Renzi temporeggia? Cottarelli, che, secondo voci accreditate, sarebbe pronto alle dimissioni (in autunno dovrebbe lasciare l’incarico di commissario straordinario), proprio per divergenze con il Parlamento, ma anche e soprattutto con l’esecutivo, sul suo blog ha attaccato duramente le attuali inerzie sulla spending review. In realtà il “j’accuse” era rivolto più che altro contro il declassamento del suo ruolo, inizialmente di autorità indipendente incaricata di individuare sprechi e diseconomie interne alla pubblica amministrazione, successivamente di semplice consulente esterno privo di efficaci poteri decisionali rispetto alle modalità dei tagli e sempre più emarginato dall’operativa e famigerata “stanza dei bottoni”. Cottarelli, che non è l’ultimo arrivato e che ha trascorso 25 anni al Fondo Monetario Internazionale, ha lanciato un allarme tutt’altro che da sottovalutare: se si usano i risparmi di spesa per coprire nuove spese, il rischio è di non trovare le risorse per poter ridurre progressivamente le tasse sul lavoro. 

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata la cosiddetta “quota 96” per le pensioni degli insegnanti, approvata dalla Camera in deroga alla riforma Fornero, con una copertura garantita da tagli lineari già nel 2014 e poi nel 2015. Ad alterarsi per quest’uso parlamentare disinvolto della spending review non è stato solo il commissario Cottarelli, ma anche la Ragioneria generale e il Ministero dell’Economia. In altre parole, circa 1,6 miliardi di euro sarebbero già stati destinati ai prepensionamenti nel settore scuola prima ancora di essere stati risparmiati, il che vanificherà la prospettiva di ridurre il costo del lavoro, tappa fondamentale per rilanciare l’occupazione e restituire competitività al sistema delle imprese. La pratica di autorizzare nuove spese indicando che la copertura sarà trovata attraverso future operazioni di revisione della spesa o, in alternativa, attraverso tagli lineari delle spese ministeriali, non era un vezzo tipico della tanto vituperata Prima Repubblica? Non rispondeva al cattivo andazzo di promettere ed elargire ciò che non c’era ancora nelle casse dello Stato, salvo poi rendersi conto che quei soldi non potevano che essere finanziati con nuovo debito pubblico?

Qualcuno sospetta che il siluramento di Cottarelli che, fiutando l’aria, ha giustamente giocato d’anticipo minacciando le dimissioni, sia in realtà l’ennesimo colpo di mano di Renzi finalizzato ad avocare a sé ogni decisione su tagli e risistemazione della spesa pubblica, magari in funzione elettoralistica. Se quei 25 dossier preparati dalla squadra di Cottarelli venissero pubblicati (come un sano principio di trasparenza suggerirebbe), magari i cittadini aprirebbero gli occhi e non sarebbero più così tanto disposti a tollerare l’ossessione ormai patetica del premier e dei suoi verso la riforma del Senato, spacciata come panacea di tutti i mali e che invece, quand’anche andasse in porto, non inciderebbe minimamente sul rilancio dell’economia italiana e del sistema Paese. 

I nodi del disastro economico-finanziario stanno arrivando al pettine, sia in Italia che nell’Eurozona. L’illusione di uno spread basso non può minimanente cancellare i rischi che l’Italia corre in ragione del suo crescente debito pubblico, di una contrazione del Pil e dell’occupazione, di un sistema delle imprese strangolato dal fisco. E’ ora che le forze responsabili del Paese facciano sentire la loro voce, cercando di rivedere l’agenda delle priorità. Non sarà certamente la riforma del Senato a frenare il declino dell’Italia.