Il potere a vita: ecco il vizietto dei leader africani
Al presidente boliviano Evo Morales è andata mala: il referendum ha bocciato la sua pretesa di abolire la legge che limita il numero dei mandati presidenziali. Qualche consiglio glielo potrebbero dare i colleghi africani, grandi esperti in materia: la maggior parte degli Stati africani, infatti, ha presidenti a vita.
Il 21 febbraio la Bolivia è andata al voto per pronunciarsi su una importante modifica costituzionale proposta dal presidente Evo Morales: l’abolizione della legge che limita il numero di mandati presidenziali che un cittadino può ricoprire. Morales, che ha solo 56 anni, la chiedeva perché è al terzo mandato e la costituzione attuale non gli consente di svolgerne altri. Ma gli è andata male, al referendum hanno vinto i “no” e così non potrà candidarsi alle prossime presidenziali, a meno che nel frattempo non escogiti un espediente per aggirare la legge.
Qualche consiglio glielo potrebbero dare i colleghi africani, grandi esperti in materia. Quelli in carica da più tempo sono Teodoro Obiang Nguema Mbasogo e José Eduardo dos Santos, al potere entrambi dal 1979, quindi da 36 anni, rispettivamente in Guinea Equatoriale e in Angola. Li segue a ruota Robert Mugabe, premier e poi presidente dello Zimbabwe dal 1980. Di limiti ai mandati presidenziali in questi tre Paesi non ce ne sono, a differenza della maggior parte degli altri Stati africani che invece li hanno introdotti – di solito il limite è di due – per compiacere i donatori internazionali e contenere il dissenso interno. Ma il potere fa gola, specialmente negli Stati ricchi di materie prime.
Così è incominciata ben presto la battaglia per abolirli. In Camerun, dove Paul Biya governa da 32 anni, a deciderlo è stato il parlamento nel 2008. Nella Repubblica del Congo Denis Sassou-Nguesso, 30 anni al potere con un breve intervallo, è ricorso a un referendum svoltosi nel 2015. In Uganda la modifica costituzionale è stata attuata nel 2005, approvata anche in questo caso da una consultazione popolare. Altri cinque Paesi hanno soppresso i limiti ai mandati: sono Ciad, Togo, Gibuti, Algeria e Rwanda. Il Gabon invece per ora si è limitato a ridurre a un unico turno il voto, poi si vedrà. Dal 2009 questo paese è governato da Ali Bongo, uno dei tre capi di Stato africani che hanno ereditato la carica alla morte del padre.
Gli altri due sono il presidente del Togo, Faure Gnassingbe, e quello della Repubblica Democratica del Congo, Joseph Kabila, che, ormai al secondo mandato, sta tentando anche lui di imporre la consueta modifica costituzionale. Un caso a parte è il Burundi. Il suo presidente, Pierre Nkurunziza, ha potuto candidarsi per la terza volta nel luglio del 2015, e vincere, semplicemente grazie a un cavillo: il primo incarico presidenziale gli era stato conferito dal Parlamento nel 2005 e solo il secondo mandato è stato il risultato di una vittoria elettorale. Un altro caso a parte è l’Eritrea dove il presidente Isaias Afewerki, in carica dall’indipendenza ottenuta nel 1993, ha risolto radicalmente il problema perché da allora non ha mai indetto elezioni.
Candidarsi non vuol dire vincere, si potrebbe obiettare. Ma in Africa chi controlla l’apparato statale dispone di sostanziali mezzi finanziari e istituzionali per determinare gli esiti elettorali: brogli, intimidazioni, voti comprati, violenze spinte fino all’eliminazione degli avversari. In Burundi il desiderio di Pierre Nkurunziza di conservare al potere è costato finora oltre 400 morti, 250.000 tra sfollati e profughi e un paese sull’orlo di una nuova guerra civile. In Uganda il presidente Museveni ha vinto lo scorso 18 febbraio, ma con irregolarità vistose, interventi della polizia a disperdere le proteste, il ripetuto arresto del principale avversario e il blocco dei mass media.
Il presidente Denis Sassou-Nguesso il 24 febbraio ha replicato alle critiche con un argomento che piace molto in Africa: le ex potenze coloniali farebbero bene ad astenersi da diktat e ingerenze e lasciare che siano gli africani a decidere del loro destino. Un altro argomento usato dai leader africani è che non sarebbe giusto impedire a un popolo di rieleggere un presidente quante volte gli pare. I limiti ai mandati presidenziali sarebbero un’idea estranea all’Africa, una regola che gli stessi stati occidentali così severi nei confronti dei governi africani non rispettano. Sassou-Nguesso portava a esempio il cancelliere tedesco Merkel, al terzo mandato. Prima dei leader africani, dagli anni Settanta i docenti universitari nei Paesi occidentali hanno incominciato a teorizzare che il modello democratico parlamentare fosse inadatto all’Africa: meglio, dicevano gli esperti d’Africa, l’incompresa “democrazia del baobab” tribale (ovvero i consigli degli anziani che di democratico ovviamente nulla hanno essendo riservati ai soli maschi capifamiglia).
«Non so se quelli che parlano dell’Africa conoscono l’Africa», ha detto il presidente Sassou-Nguesso, forte del fatto che nel suo paese i “si” al referendum sono stati il 95%. In verità, qualche diritto di mettere il naso negli affari degli Stati africani il resto del mondo ce l’ha: specie i Paesi occidentali che sono i maggiori donatori internazionali. Il bilancio del Burundi e dell’Uganda, ad esempio, per il 40% dipende dagli aiuti internazionali. Altri Stati africani sono nella medesima condizione. Lo stesso bilancio dell’Unione Africana per metà è coperto con fondi di Stati non africani. L’organismo continentale dovrebbe intervenire in difesa della democrazia e dei diritti umani. Ma i leader africani sono molto restii a sanzionare un collega. La volta dopo potrebbe toccare a loro.