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IL BELLO DELLA LITURGIA

Il pittore che volle vivere la via crucis per dipingerla

La Via Crucis di Gaetano Previati, composta da 14 tele e conservata nella Collezione di Arte Contemporanea dei Musei Vaticani, fu dipinta dopo una meditazione di dieci mesi, seguita all'acquisto dei telai e di una grande croce di legno che l'artista caricava su di sé ogni qualvolta gli capitava di perdere l’ispirazione.

Cultura 06_03_2021

Gaetano Previati, Via Crucis, Musei Vaticani

Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà” (Mt 20, 18-19)

C’è un filo conduttore nelle quattordici tele che compongono la Via Crucis di Gaetano Previati, conservata nella Collezione di Arte Contemporanea dei Musei Vaticani. È un colore: il rosso, quello purpureo e profondo del manto di Cristo che dice già tutto della sofferenza del Calvario, un mistero su cui il maestro, come testimonia un contemporaneo, aveva meditato per dieci mesi chiuso nel suo studio di Milano, dopo avere acquistato i telai necessari e una grande e massiccia croce di legno. Che, riportano sempre le fonti, Previati caricava su di sé ogni qualvolta gli capitava di perdere l’ispirazione.

È il frutto della fede del pittore, dunque, questo ciclo, realizzato, infatti, non per una precisa committenza ed esposto per la prima volta in un contesto completamente laico quale la Quadriennale di Torino del 1902. Previati aveva già, del resto, affrontato lo stesso impegnativo tema anni addietro, arrivando a realizzare nel 1888 gli affreschi per il cimitero di Castano Primo, per motivi conservativi poi strappati e oggi esposti presso il locale museo civico. Rispetto a quella prima versione, la vaticana trascende l’iconografia tradizionale per giungere a una visione profondamente intensa e drammatica che costringe chiunque la osservi, a prescindere dal suo credo, a confrontarsi con il dolore di Cristo.

Le tele sono decisamente grandi, fuori formato per una qualsivoglia collocazione chiesastica o privata. E, come desiderava l’autore, vanno viste in stretta sequenza, senza soluzione di continuità. Il punto di vista è fortemente ravvicinato tanto che le figure sembrano fuoriuscire dalla cornice del dipinto, attraendo, viceversa, l’osservatore nello spazio in cui si consuma il dramma sacro: come se Cristo stesse proprio passando di lì.

L’ascesa al Calvario ha inizio, e prosegue, sullo sfondo di un cielo striato dai bagliori di un acceso tramonto, che colpiscono i personaggi stipati attorno a Gesù, le fisionomie deformate, quasi fossero maschere, da questo immenso patire che Nostro Signore carica su di Sé ma che è proprio di ogni uomo che rifiuti e rinneghi il Suo amore. Lo vediamo per la prima volta legato alla colonna, il capo già incoronato di spine, e lo incontriamo, di stazione in stazione, attraverso le figure che Gli si fanno più prossime, dal Cireneo alla Vergine Maria, con la quale l’incrocio di sguardi è struggente oltre ogni misura.

Gesù, sotto le materiche pennellate di Previati, cade una prima, una seconda, una terza volta prima di essere, infine, crocefisso. Tutto è, ormai, compiuto: le braccia spalancate verso l’alto, inchiodate alla croce, lo confermano. Del rosso regale dell’inizio resta solo un accenno nei fulgori in lontananza. Una luce, però, investe il Suo corpo squarciando il buio della sepoltura. Il ciclo vaticano si chiude così, con un chiaro indizio dell’imminente Resurrezione.