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RIFORME

Il pericolo è un Senato privo di voce sull'etica

Il prossimo Senato, così come lo si vuole riformare, sarebbe quasi del tutto privo del diritto di voto sui temi etici. Quasi, perché l'emendamento Candiani permetterà ancora ai senatori di esprimersi sugli articoli 29 (famiglia) e 32 (salute) della Costituzione. Ma è una regola che si può aggirare facilmente.

Politica 25_08_2015
Costituzione italiana

L’argomento non eccita gli animi - e ci mancherebbe - e tra le pieghe di questa estate sul finire si è infilato solo come indefinito chiacchiericcio di fondo. Ovvio che, ai senatori cui smantellano il Senato, il pensiero di come riciclarsi può aver loro disturbato le vacanze e che, ai poveri commessi di Palazzo Madama, i 513.449 emendamenti presentati, da riprodurre scrupolosamente su supporto digitale, sono andati di traverso. Però, a parte agli addetti ai lavori e a pochi altri, della riforma del secondo ramo del Parlamento, alla gente comune non importa granché. Come, del resto, delle riforme istituzionali in generale. Neppure i (tutto sommato, pochi) milioni di euro risparmiati con il taglio dei compensi non sono una suggestione sufficiente per non sentire come più urgenti e reali le inquietudini della crisi.

Eppure, dovrebbe interessare, eccome. Non tanto perché il Parlamento, abolito il bicameralismo perfetto, dovrebbe essere finalmente funzionante ed efficiente; o perché il governo, non avendo più a che fare con un Senato sovente traballante, potrà finalmente governare. Non per queste ragioni, ma perché nel testo proposto inizialmente dall’esecutivo era stato abolito il diritto dei senatori a legiferare sui temi etici, diritto ripristinato – formalmente - dall’emendamento Candiani a scrutinio segreto con 154 sì e 147 no, contro il parere di Palazzo Chigi. La modifica riattribuisce al Senato competenza paritaria sugli articoli 29 e 32 della Costituzione. Tutto, però, può ancora evolvere rovinosamente. Trattandosi di un disegno di legge costituzionale, restano ancora almeno due votazioni (entrambe le Camere devono esaminarlo due volte, a distanza di tre mesi l’una dall’altra), sempre che la mole di emendamenti non affossi l’iter. Infine, c’è il referendum confermativo, richiedibile se nella seconda deliberazione non si raggiunge la maggioranza qualificata dei due terzi del Parlamento.

La richiesta, in questo caso, è scontata, e il referendum, nelle previsioni di Renzi, potrebbe essere indetto a febbraio 2016. Facile che in questi passaggi, qualcosa vada storto, e la pur residuale competenza sulle questioni etiche sia nuovamente sottratta si senatori. Anche se tutto filasse liscio, la questione resterebbe aperta. L’emendamento Candiani, infatti, fa esplicito riferimento esclusivamente agli articoli 29 e 32 della Costituzione. Che, di certo, non esauriscono tutte le questioni di natura etica affrontabili in sede legislativa (si pensi solo alla legislazione sull’aborto, ai testi scolastici legati al credo gender, o alla libertà di educazione). Anzi, a rigor di logica potrebbero non includere interamente neppure quelle di cui fanno esplicita menzione. Prendiamo, per esempio, il ddl Cirinnà sulle unioni civili che, di fatto, estende l’istituto del matrimonio anche alle coppie omosessuali. E che, attualmente, ristagna in Aula per l’opposizione di parte di Area Popolare e per il dibattito interno al Pd. Indubbiamente, la materia riguarda l’articolo 29 della Costituzione, ma è affrontata con una proposta di legge ordinaria e non costituzionale. Dunque, il Senato riformato, in questo caso, avrebbe diritto di voto o no? E quale organo stabilisce e in che termini se un disegno di legge o parte di esso spetti anche alla competenza del Senato? La risposta temiamo giaccia tra le more dei futuri decreti attuativi della riforma.

Non dimentichiamo che, con la nuova legge elettorale, è enorme il rischio di avere una Camera in cui lo scarto tra la maggioranza parlamentare e il voto degli italiani sia elevato. La lista che prende il 40% dei voti, infatti, ottiene un premio di maggioranza che le attribuisce 340 seggi (il 54%); se nessuno raggiunge tale soglia, il premio è attribuito a chi vince il ballottaggio tra le due liste più votate. Un partito che al primo turno ottiene il 25% delle preferenze, quindi, potrebbe guidare il Paese con il 54% dei seggi. Aggiungiamo, infine, il continuo crollo dell’affluenza alle urne (nel 2013 ha votato il 75,16% degli aventi diritto, il 5% in meno rispetto al 2008 e l’8% rispetto al 2006): va a finire che sulle questioni etiche potrebbe decidere una sparuta aristocrazia parlamentare, telecomandata da un governo spinto-progressista. Paradossalmente, l’obiezione di fondo alla legislazione paritaria sulle norme connotate eticamente consiste nel ritenerla illegittima nel caso di un Senato di natura non elettiva. Un’obiezione che svanisce di fronte al fatto che, per 20 anni, dopo l’abolizione delle preferenze, sono stati mandati in Parlamento deputati e senatori scelti dalle segreterie dei partiti che nessuno, nella maggior parte dei casi, ha mai visto e votato. A differenza dei sindaci e dei consiglieri regionali che comporranno il nuovo Senato che, in una fase almeno del loro cursus honorum, i voti se li sono dovuti procurare.