Il Papa: «La vera gioia è la fiducia in Dio»
Benedetto XVI ci ricorda che la nostra storia, anche se segnata da dolore, da incertezze, è una storia di salvezza e di “ristabilimento delle sorti”.
All'udienza generale del 12 ottobre - oltre a rivolgere un toccante appello a favore della comunità copta egiziana - Benedetto XVI ha proseguito nella parte della sua «scuola della preghiera» dedicata ai Salmi, passando dallo scenario tragico dei testi commentati nelle settimane precedenti a «un Salmo dalle note festose, una preghiera che, nella gioia, canta le meraviglie di Dio». Si tratta del Salmo 126 - secondo la numerazione greco-latina 125 -, che celebra l'opera meravigliosa del Signore sia nella storia d'Israele sia nella storia personale di ogni credente.
Così inizia il Salmista:
«Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion, ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia» (vv. 1-2a).
Il Papa attira la nostra attenzione sull'uso, che non è casuale, del verbo «ristabilire». Una situazione è «ristabilita» quando è «restituita allo stato originario, in tutta la sua precedente positività».
Questa restaurazione nello stato primordiale voluto da Dio di una situazione che il peccato e la storia hanno compromesso è frequente nella Sacra Scrittura. La ritroviamo nella vicenda di Giobbe, quando «il Signore gli ridona tutto quanto aveva perduto, raddoppiandolo ed elargendo una benedizione ancora maggiore (cfr Gb 42,10-13)»; ed è «quanto sperimenta il popolo d’Israele ritornando in patria dall’esilio babilonese».
Anzi, «è proprio in riferimento alla fine della deportazione in terra straniera che viene interpretato questo Salmo: l’espressione “ristabilire la sorte di Sion” è letta e compresa dalla tradizione come un “far tornare i prigionieri di Sion”».
Come al solito nei Salmi, c'è un significato legato alla storia d'Israele, e uno universale che coinvolge tutti noi. «In effetti, il ritorno dall’esilio è paradigma di ogni intervento divino di salvezza perché la caduta di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia sono state un’esperienza devastante per il popolo eletto, non solo sul piano politico e sociale, ma anche e soprattutto sul piano religioso e spirituale. La perdita della terra, la fine della monarchia davidica e la distruzione del Tempio appaiono come una smentita delle promesse divine, e il popolo dell’alleanza, disperso tra i pagani, si interroga dolorosamente su un Dio che sembra averlo abbandonato. Perciò, la fine della deportazione e il ritorno in patria sono sperimentati come un meraviglioso ritorno alla fede, alla fiducia, alla comunione con il Signore».
Qui, afferma il Papa, è importante che noi comprendiamo - dopo avere meditato nelle scorse settimane su Salmi ispirati al dolore e alla tragedia - che nella storia talora Dio offre pure, come in questo caso, «un'esperienza di gioia straripante, di sorrisi e grida di giubilo, talmente bella che “sembra di sognare”. Gli interventi divini hanno spesso forme inaspettate, che vanno al di là di quanto l’uomo possa immaginare; ecco allora la meraviglia e la letizia che si esprimono nella lode: “Il Signore ha fatto grandi cose”». Così, infatti, prosegue il Salmo:
«Allora si diceva tra le genti:
“Il Signore ha fatto grandi cose per loro”.
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia» (vv. 2b-3).
Per quanto in certi momenti ci possa sembrare difficile da credere, questa verità rimane: «Dio fa meraviglie nella storia degli uomini». Anche le nazioni pagane, le «genti», si rendono conto che a favore del popolo ebraico dev'esserci stato un qualche intervento straordinario e divino, e «Israele fa eco alla proclamazione delle nazioni, e la riprende ripetendola, ma da protagonista, come diretto destinatario dell’azione divina: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi»; “per noi”, o ancor più precisamente, “con noi”, in ebraico "‘immanû", affermando così quel rapporto privilegiato che il Signore intrattiene con i suoi eletti e che troverà nel nome Immanuel, “Dio con noi”, con cui viene chiamato Gesù, il suo culmine e la sua piena manifestazione».
La preghiera può essere certo - il Papa ne ha parlato nelle scorse settimane - un grido di angoscia che si leva a Dio da una situazione difficile. E tuttavia è anche vero che «nella nostra preghiera dovremmo guardare più spesso a come, nelle vicende della nostra vita, il Signore ci ha protetti, guidati, aiutati e lodarlo per quanto ha fatto e fa per noi. Dobbiamo essere più attenti alle cose buone che il Signore ci dà».
Rischiamo spesso di perdere il senso della gratitudine verso Dio. «Siamo sempre attenti ai problemi, alle difficoltà e quasi non vogliamo percepire che ci sono cose belle che vengono dal Signore. Questa attenzione, che diventa gratitudine, è molto importante per noi e ci crea una memoria del bene che ci aiuta anche nelle ore buie. Dio compie cose grandi, e chi ne fa esperienza - attento alla bontà del Signore con l'attenzione del cuore - è ricolmo di gioia».
I benefici del Signore devono dunque essere occasione di una gratitudine che ci dà l'autentica gioia. Ma è lecito chiedere a Dio che continui ad elargirci i suoi benefici, e dunque così continua il Salmo:
«Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia.
Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni» (vv. 4-6).
Sembrerebbe che ci sia qui una contraddizione. «Se all’inizio della sua preghiera, il Salmista celebrava la gioia di una sorte ormai ristabilita dal Signore, ora invece la chiede come qualcosa ancora da realizzare. Se si applica questo Salmo al ritorno dall’esilio, questa apparente contraddizione si spiegherebbe con l’esperienza storica, fatta da Israele, di un ritorno in patria difficile, solo parziale, che induce l’orante a sollecitare un ulteriore intervento divino per portare a pienezza la restaurazione del popolo».
Ricordiamo però che la Sacra Scrittura ha sempre un valore universale: non è mera cronaca delle vicende del popolo ebraico ma intende trasmettere un messaggio di salvezza anche a noi. E dunque «il Salmo va oltre il dato puramente storico per aprirsi a dimensioni più ampie, di tipo teologico. L’esperienza consolante della liberazione da Babilonia è comunque ancora incompiuta, “già” avvenuta, ma “non ancora” contrassegnata dalla definitiva pienezza. Così, mentre nella gioia celebra la salvezza ricevuta, la preghiera si apre all’attesa della realizzazione piena».
La coesistenza di un «già» e di un «non ancora» caratterizza tutta la vita del credente. «Per questo il Salmo utilizza immagini particolari, che, con la loro complessità, rimandano alla realtà misteriosa della redenzione, in cui si intrecciano dono ricevuto e ancora da attendere, vita e morte, gioia sognante e lacrime penose».
Le immagini usate sono radicate nell'esperienza storica d'Israele, ma insieme hanno un significato universale. La prima immagine «fa riferimento ai torrenti secchi del deserto del Neghev, che con le piogge si riempiono di acqua impetuosa che ridà vita al terreno inaridito e lo fa rifiorire. La richiesta del Salmista è dunque che il ristabilimento della sorte del popolo e il ritorno dall’esilio siano come quell’acqua, travolgente e inarrestabile, e capace di trasformare il deserto in una immensa distesa di erba verde e di fiori».
La seconda immagine «si sposta dalle colline aride e rocciose del Neghev ai campi che i contadini coltivano per trarne il cibo. Per parlare della salvezza, si richiama qui l’esperienza che ogni anno si rinnova nel mondo agricolo: il momento difficile e faticoso della semina e poi la gioia prorompente del raccolto. Una semina che è accompagnata dalle lacrime, perché si getta ciò che potrebbe ancora diventare pane, esponendosi a un’attesa piena di incertezze: il contadino lavora, prepara il terreno, sparge il seme, ma, come illustra bene la parabola del seminatore, non sa dove questo seme cadrà, se gli uccelli lo mangeranno, se attecchirà, se metterà radici, se diventerà spiga».
Per noi l'esperienza dell'agricoltura e diventata meno consueta, ma tutti ancora comprendiamo che «gettare il seme è un gesto di fiducia e di speranza; è necessaria l’operosità dell’uomo, ma poi si deve entrare in un’attesa impotente, ben sapendo che molti fattori saranno determinanti per il buon esito del raccolto e che il rischio di un fallimento è sempre in agguato. Eppure, anno dopo anno, il contadino ripete il suo gesto e getta il suo seme. E quando questo diventa spiga, e i campi si riempiono di messi, ecco la gioia di chi è davanti a un prodigio straordinario».
Come sempre, ai Salmi fa eco Gesù nel Vangelo. «Diceva: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26-27)». È «il mistero nascosto della vita, sono le meravigliose “grandi cose” della salvezza che il Signore opera nella storia degli uomini e di cui gli uomini ignorano il segreto. L’intervento divino, quando si manifesta in pienezza, mostra una dimensione prorompente, come i torrenti del Neghev e come il grano nei campi, evocatore quest’ultimo anche di una sproporzione tipica delle cose di Dio: sproporzione tra la fatica della semina e l’immensa gioia del raccolto, tra l’ansia dell’attesa e la rasserenante visione dei granai ricolmi, tra i piccoli semi gettati a terra e i grandi cumuli di covoni dorati dal sole. Alla mietitura, tutto è trasformato, il pianto è finito, ha lasciato il posto a grida di gioia esultante».
Ma in che senso tutto questo scenario pastorale e agricolo è rilevante per noi oggi? Il Salmista vuole «parlare della salvezza, della liberazione, del ristabilimento della sorte, del ritorno dall’esilio. La deportazione a Babilonia, come ogni altra situazione di sofferenza e di crisi, con il suo buio doloroso fatto di dubbi e di apparente lontananza di Dio, in realtà, dice il nostro Salmo, è come una semina». In verità, solo «nel Mistero di Cristo, alla luce del Nuovo Testamento, il messaggio si fa ancora più esplicito e chiaro: il credente che attraversa quel buio è come il chicco di grano caduto in terra che muore, ma per dare molto frutto (cfr Gv 12,24); oppure, riprendendo un’altra immagine cara a Gesù, è come la donna che soffre nelle doglie del parto per poter giungere alla gioia di aver dato alla luce una nuova vita (cfr Gv 16,21)».
Questo Salmo molto consolante «ci insegna che, nella nostra preghiera, dobbiamo rimanere sempre aperti alla speranza e saldi nella fede in Dio. La nostra storia, anche se segnata spesso da dolore, da incertezze, da momenti di crisi, è una storia di salvezza e di “ristabilimento delle sorti”. In Gesù, ogni nostro esilio finisce, e ogni lacrima è asciugata, nel mistero della sua Croce, della morte trasformata in vita, come il chicco di grano che si spezza nella terra e diventa spiga».
La preghiera cui il Papa ci invita ha due aspetti. Anzitutto, non dobbiamo dimenticare di ringraziare il Signore. In secondo luogo, la meditazione sui benefici del Signore deve spingerci a operare per il bene e per trasformare il mondo. E a non disperare quando le difficoltà si presenteranno di nuovo. «Come coloro che - ritornati da Babilonia pieni di gioia – hanno trovato una terra impoverita, devastata, come pure la difficoltà della seminagione e hanno sofferto piangendo non sapendo se realmente alla fine ci sarebbe stata la raccolta, così anche noi, dopo la grande scoperta di Gesù Cristo - la nostra vita, la verità, il cammino - entrando nel terreno della fede, nella “terra della fede”, troviamo anche spesso una vita buia, dura, difficile, una seminagione con lacrime, ma sicuri che la luce di Cristo ci dona, alla fine, realmente, la grande raccolta».
E dunque «dobbiamo imparare questo anche nelle notti buie; non dimenticare che la luce c'è, che Dio è già in mezzo alla nostra vita e che possiamo seminare con la grande fiducia che il “sì” di Dio è più forte di tutti noi. È importante non perdere questo ricordo della presenza di Dio nella nostra vita, questa gioia profonda che Dio è entrato nella nostra vita, liberandoci: è la gratitudine per la scoperta di Gesù Cristo, che è venuto da noi. E questa gratitudine si trasforma in speranza, è stella della speranza che ci dà la fiducia, è la luce, perché proprio i dolori della seminagione sono l'inizio della nuova vita, della grande e definitiva gioia di Dio».