Il Papa: «La disobbedienza non è una via»
Durante la Messa crismale Benedetto XVI ha risposto con tono fermo ai gruppi di preti progressisti che, in Europa, incitano alla disobbedienza.
La Messa crismale del 5 aprile ha offerto a Benedetto XVI l’occasione per pronunciare un’importante omelia sui sacerdoti, «consacrati, cioè consegnati per sempre a Dio», e per rispondere con tono fermo alle contestazioni contro il Magistero che vengono da gruppi di sacerdoti progressisti in diversi Paesi, in particolare in Austria, denunciando la disobbedienza dei presbiteri come una strada inaccettabile e disperata.
Come sacerdoti siamo stati consacrati da un vescovo. «Ma siamo anche consacrati nella realtà della nostra vita? – si è chiesto il Papa – Siamo uomini che operano a partire da Dio e in comunione con Gesù Cristo?». Questa domanda ne racchiude in realtà due. Da una parte, «è richiesto un legame interiore, anzi, una conformazione a Cristo, e in questo necessariamente un superamento di noi stessi, una rinuncia a quello che è solamente nostro, alla tanto sbandierata autorealizzazione. È richiesto che noi, che io non rivendichi la mia vita per me stesso, ma la metta a disposizione di un altro – di Cristo. Che non domandi: che cosa ne ricavo per me?, bensì: che cosa posso dare io per Lui e così per gli altri?».
Se la prima domanda mette in crisi non solo il carrierismo, ma tante forme di narcisismo psicologico che oggi coinvolgono anche i preti, c’è una seconda questione che il Pontefice ha scelto di affrontare in un modo del tutto diretto: la vocazione del sacerdote «come deve realizzarsi nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi?». E qui Benedetto XVI ha fatto riferimento all’«Appello alla disobbedienza» pubblicato in Austria dal movimento Pfärrer-Iniziative, «Iniziativa dei parroci», guidato da monsignor Helmut Schüller, già vicario generale dell’Arcidiocesi di Vienna e presidente della Caritas austriaco. Questo appello, sottoscritto da quattrocento sacerdoti austriaci, chiede tra l’altro il sacerdozio femminile, l’abolizione dell’obbligo del celibato sacerdotale, la comunione per i divorziati risposati.
«Di recente – ha detto il Papa – un gruppo di sacerdoti in un Paese europeo ha pubblicato un appello alla disobbedienza, portando al tempo stesso anche esempi concreti di come possa esprimersi questa disobbedienza, che dovrebbe ignorare addirittura decisioni definitive del Magistero – ad esempio nella questione circa l’Ordinazione delle donne, in merito alla quale il beato Papa Giovanni Paolo II [1920-2005] ha dichiarato in maniera irrevocabile che la Chiesa, al riguardo, non ha avuto alcuna autorizzazione da parte del Signore». Benedetto XVI ribadisce dunque che il no al sacerdozio delle donne è definitivo e irrevocabile.
Ma, più in generale, il Papa si è chiesto: «La disobbedienza è una via per rinnovare la Chiesa? Vogliamo credere agli autori di tale appello, quando affermano di essere mossi dalla sollecitudine per la Chiesa; di essere convinti che si debba affrontare la lentezza delle Istituzioni con mezzi drastici per aprire vie nuove – per riportare la Chiesa all’altezza dell’oggi. Ma la disobbedienza è veramente una via? Si può percepire in questo qualcosa della conformazione a Cristo, che è il presupposto di ogni vero rinnovamento, o non piuttosto soltanto la spinta disperata a fare qualcosa, a trasformare la Chiesa secondo i nostri desideri e le nostre idee?».
Benedetto XVI risponde in modo fermo a richieste inaccettabili, ma nello stesso tempo cerca di comprendere com’è possibile che tanti sacerdoti si siano messi per questa strada «disperata»: «non semplifichiamo troppo il problema. Cristo non ha forse corretto le tradizioni umane che minacciavano di soffocare la parola e la volontà di Dio? Sì, lo ha fatto, per risvegliare nuovamente l’obbedienza alla vera volontà di Dio, alla sua parola sempre valida». Cristo, però, non era – come lo presenta una facile retorica – un disobbediente. «A Lui stava a cuore proprio la vera obbedienza, contro l’arbitrio dell’uomo. E non dimentichiamo: Egli era il Figlio, con l’autorità e la responsabilità singolari di svelare l’autentica volontà di Dio, per aprire così la strada della parola di Dio verso il mondo dei gentili. E infine: Egli ha concretizzato il suo mandato con la propria obbedienza e umiltà fino alla Croce, rendendo così credibile la sua missione. Non la mia, ma la tua volontà: questa è la parola che rivela il Figlio, la sua umiltà e insieme la sua divinità, e ci indica la strada».
Ma si potrebbe obiettare: «non è che con tali considerazioni viene, di fatto, difeso l’immobilismo, l’irrigidimento della tradizione?». Il Papa non ha incertezze nella risposta: «No. Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare, può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibili l’inesauribile vivacità della santa Chiesa, la presenza e l’azione efficace dello Spirito Santo. E se guardiamo alle persone, dalle quali sono scaturiti e scaturiscono questi fiumi freschi di vita, vediamo anche che per una nuova fecondità ci vogliono l’essere ricolmi della gioia della fede, la radicalità dell’obbedienza, la dinamica della speranza e la forza dell’amore».
Sì al rinnovamento postconciliare, dunque, ma nell’obbedienza al Magistero: infatti, «resta chiaro che la conformazione a Cristo è il presupposto e la base di ogni rinnovamento». E se «la figura di Cristo ci appare a volte troppo elevata e troppo grande, per poter osare di prendere le misure da Lui. Il Signore lo sa», e «ha provveduto a “traduzioni” in ordini di grandezza più accessibili e più vicini a noi» che sono i santi di tutti i tempi, «fino ai preti martiri del Novecento e, infine, fino a Papa Giovanni Paolo II che, nell’azione e nella sofferenza ci è stato di esempio nella conformazione a Cristo, come “dono e mistero”». I santi, non i disobbedienti, «ci indicano come funziona il rinnovamento e come possiamo metterci al suo servizio. E ci lasciano anche capire che Dio non guarda ai grandi numeri e ai successi esteriori, ma riporta le sue vittorie nell’umile segno del granello di senape».
Ci sono, ha detto il Pontefice, «due parole-chiave della rinnovazione delle promesse sacerdotali, che dovrebbero indurci a riflettere in quest’ora della Chiesa e della nostra vita personale». La prima è la parola di san Paolo che chiama i sacerdoti «amministratori dei misteri di Dio» (1Cor 4,1), richiamando così alla grandezza del «ministero dell’insegnamento, il munus docendi, che è una parte di tale amministrazione dei misteri di Dio, in cui Egli ci mostra il suo volto e il suo cuore, per donarci se stesso». Oggi c’è un vero «analfabetismo religioso che si diffonde in mezzo alla nostra società così intelligente. Gli elementi fondamentali della fede, che in passato ogni bambino conosceva, sono sempre meno noti» Per questo l’Anno della Fede «deve essere per noi un’occasione di annunciare il messaggio della fede con nuovo zelo e con nuova gioia». E questo messaggio, oltre che nella Sacra Scrittura, noi «lo troviamo in primo luogo nella parola della Chiesa docente: i testi del Concilio Vaticano II e il Catechismo della Chiesa Cattolica sono gli strumenti essenziali che ci indicano in modo autentico ciò che la Chiesa crede a partire dalla Parola di Dio. E naturalmente ne fa parte anche tutto il tesoro dei documenti che Papa Giovanni Paolo II ci ha donato e che è ancora lontano dall’essere sfruttato fino in fondo».
Il sacerdote dovrebbe sempre ripetere con il Vangelo: «La mia dottrina non è mia» (Gv 7,16). «Non annunciamo teorie ed opinioni private, ma la fede della Chiesa della quale siamo servitori. Ma questo naturalmente non deve significare che io non sostenga questa dottrina con tutto me stesso e non stia saldamente ancorato ad essa. In questo contesto mi viene sempre in mente la parola di sant’Agostino [354-430]: Che cosa è tanto mio quanto me stesso? E che cosa è così poco mio quanto me stesso? Non appartengo a me stesso, e divento me stesso proprio per il fatto che vado al di là di me stesso e mediante il superamento di me stesso riesco ad inserirmi in Cristo e nel suo Corpo che è la Chiesa. Se non annunciamo noi stessi e se interiormente siamo diventati tutt’uno con Colui che ci ha chiamati come suoi messaggeri così che siamo plasmati dalla fede e la viviamo, allora la nostra predicazione sarà credibile. Non reclamizzo me stesso, ma dono me stesso».
La seconda parola chiave è lo zelo per le anime (animarum zelus). «È un’espressione fuori moda che oggi quasi non viene più usata». Anzi, «in alcuni ambienti, la parola anima è considerata addirittura una parola proibita, perché – si dice – esprimerebbe un dualismo tra corpo e anima, dividendo a torto l’uomo». Queste teorie vanno rifiutate. «Certamente l’uomo è un’unità, destinata con corpo e anima all’eternità. Ma questo non può significare che non abbiamo più un’anima, un principio costitutivo che garantisce l’unità dell’uomo nella sua vita e al di là della sua morte terrena». E come sacerdoti, per quanto importanti siano le opere di carità pratica, «noi non ci preoccupiamo soltanto del corpo, ma proprio anche delle necessità dell’anima dell’uomo: delle persone che soffrono per la violazione del diritto o per un amore distrutto; delle persone che si trovano nel buio circa la verità; che soffrono per l’assenza di verità e di amore. Ci preoccupiamo della salvezza degli uomini in corpo e anima». Non solo: «in quanto sacerdoti di Gesù Cristo, lo facciamo con zelo. Le persone non devono mai avere la sensazione che noi compiamo coscienziosamente il nostro orario di lavoro, ma prima e dopo apparteniamo solo a noi stessi. Un sacerdote non appartiene mai a se stesso. Le persone devono percepire il nostro zelo, mediante il quale diamo una testimonianza credibile per il Vangelo di Gesù Cristo». Lo zelo sacerdotale, non la disobbedienza, salverà il mondo.