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MESSAGGIO PER LA GIORNATA MONDIALE

Il Papa contro la grande mezogna che emargina i malati

Papa Francesco per la XXIII Giornata Mondiale del Malato, formalmente datato 3 dicembre. Si tratta di un testo impegnativo e non sempre facile, dove il Pontefice torna su tre temi fondamentali del suo magistero. Al centro del messaggio, la «grande menzogna» per cui il malato non ha valore. 

Ecclesia 31_12_2014
Papa Francesco abbraccia un malato

Il 30 dicembre 2014 è stato reso pubblico il Messaggio di Papa Francesco per la XXIII Giornata Mondiale del Malato, formalmente datato 3 dicembre. Si tratta di un testo impegnativo e non sempre facile, dove il Pontefice torna su tre temi fondamentali del suo magistero. Il primo è la denuncia del tempo moderno come tempo della «fretta» e della «frenesia del fare», che porta a svalutare quello dedicato ai malati, specie quelli senza umana speranza di guarigione, come tempo perduto.

Il secondo – che consegue logicamente al primo – è la constatazione che la società che svaluta il tempo dedicato ai malati svaluta fatalmente anche i malati e propone la «grande menzogna» che lega il diritto alla vita all’ambigua nozione di «qualità della vita», fino alla promozione dell’eutanasia. Il terzo – un tema tipico e difficile del magistero di Francesco – è che un modo diffuso anche tra le persone religiose e tra i cristiani di svalutare i malati è quello di giudicarli, accompagnato dalla smania di «convertirli»: una forma di proselitismo, la cui critica non va confusa con una rinuncia alla missione presso i malati, cioè all’annuncio paziente e misericordioso della Croce di Gesù come sola «autentica risposta» all’esperienza della malattia, il quale trasforma la sofferenza da potenziale ostacolo a occasione di scoperta o di ritorno alla fede.

Dopo avere ricordato che la Giornata Mondiale del Malato fu istituita da san Giovanni Paolo II, il quale diede egli stesso una straordinaria testimonianza di santità negli anni della malattia, Francesco propone una profonda meditazione su un brano del Libro di Giobbe, scelto come tema per la Giornata: «Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo». Il Papa precisa che non intende svolgerne un’esegesi scientifica, ma meditare sulla pagina di Giobbe «nella prospettiva della “sapientia cordis”, la sapienza del cuore». Questa sapienza è importante per il cristiano in genere, e tanto più per i malati e per chi si dedica a loro: «non è una conoscenza teorica, astratta, frutto di ragionamenti. Essa piuttosto, come la descrive san Giacomo nella sua Lettera, è “pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera”» È dunque «un atteggiamento infuso dallo Spirito Santo nella mente e nel cuore di chi sa aprirsi alla sofferenza dei fratelli e riconosce in essi l’immagine di Dio».

Il brano del Libro di Giobbe c’insegna quattro dimensioni della sapienza del cuore: servire il fratello, stare con il fratello, uscire verso il fratello, rinunciare a giudicarlo. Anzitutto, le parole «io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo» fanno riferimento alle opere di carità di Giobbe nel periodo della sua salute e della sua fortuna, «la dimensione di servizio ai bisognosi da parte di quest’uomo giusto, che gode di una certa autorità e ha un posto di riguardo tra gli anziani della città. La sua statura morale si manifesta nel servizio al povero che chiede aiuto, come pure nel prendersi cura dell’orfano e della vedova». Per fortuna, nota il Pontefice, persone come Giobbe ci sono ancora oggi nella Chiesa. «Quanti cristiani anche oggi testimoniano, non con le parole, ma con la loro vita radicata in una fede genuina, di essere “occhi per il cieco” e “piedi per lo zoppo”! Persone che stanno vicino ai malati che hanno bisogno di un’assistenza continua, di un aiuto per lavarsi, per vestirsi, per nutrirsi». Non si tratta di un servizio che possa essere ridotto a formule retoriche o romantiche. In realtà è «faticoso e pesante. È relativamente facile servire per qualche giorno, ma è difficile accudire una persona per mesi o addirittura per anni, anche quando essa non è più in grado di ringraziare». Ma proprio per questo il pesante e difficile servizio alle persone malate è un «grande cammino di santificazione». «In quei momenti si può contare in modo particolare sulla vicinanza del Signore, e si è anche di speciale sostegno alla missione della Chiesa».

In secondo luogo, sapienza del cuore significa stare con il fratello. Papa Francesco torna su uno dei grandi temi del suo magistero, il tempo. Per una società che misura il tempo con le categorie dell’efficienza e della fretta – quella che i sociologi chiamano la società dell’accelerazione – il tempo dedicato ai malati è tempo sprecato. Nella prospettiva cristiana, al contrario, «il tempo passato accanto al malato è un tempo santo. È lode a Dio, che ci conforma all’immagine di suo Figlio». Proprio perché oggi comprendere questa verità è difficile, dobbiamo chiedere «con viva fede allo Spirito Santo che ci doni la grazia di comprendere il valore dell’accompagnamento, tante volte silenzioso, che ci porta a dedicare tempo a queste sorelle e a questi fratelli, i quali, grazie alla nostra vicinanza e al nostro affetto, si sentono più amati e confortati». La «grande menzogna» dell’efficienza porta fatalmente all’idea che solo una vita sana è degna di essere vissuta, e quindi all’eutanasia. «Quale grande menzogna si nasconde – esclama Papa Francesco – dietro certe espressioni che insistono tanto sulla “qualità della vita”, per indurre a credere che le vite gravemente affette da malattia non sarebbero degne di essere vissute!».

La riflessione sul tempo ispira anche la meditazione del Papa sulla terza dimensione della sapienza del cuore: uscire da sé verso il fratello. «Il nostro mondo dimentica a volte il valore speciale del tempo speso accanto al letto del malato, perché si è assillati dalla fretta, dalla frenesia del fare, del produrre, e si dimentica la dimensione della gratuità, del prendersi cura, del farsi carico dell’altro». Per il cristiano, «dietro questo atteggiamento c’è spesso una fede tiepida», che cede agli stili di vita dominanti.

Anche la quarta dimensione della sapienza del cuore, che invita a non giudicare il fratello malato, ha a che fare con il tempo. «La carità ha bisogno di tempo. Tempo per curare i malati e tempo per visitarli. Tempo per stare accanto a loro come fecero gli amici di Giobbe: “Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore”». Ma gli amici di Giobbe non ci sono proposti come modello dalla Scrittura: lo giudicano, e ritengono che la sua malattia sia un castigo di Dio per i suoi peccati, Questi cosiddetti amici «nascondevano dentro di sé un giudizio negativo su di lui: pensavano che la sua sventura fosse la punizione di Dio per una sua colpa».

Dal giudizio nasce anche la smania di convertire subito l’altro, in questo caso il malato: è quello che il Papa denuncia spesso come «proselitismo», una forma di moralismo che va subito dritta al giudizio e che non va confusa con la missione, che è invece invito discreto e paziente in quanto non parte dal giudizio ma dalla condivisione e dalla misericordia. Mentre quello degli amici di Giobbe è moralismo e proselitismo, «la vera carità è condivisione che non giudica, che non pretende di convertire l’altro; è libera da quella falsa umiltà che sotto sotto cerca approvazione e si compiace del bene fatto».

La rinuncia al proselitismo, cioè alla conversione come pretesa, in nessun modo è rinuncia alla missione, in questo caso annuncio al malato che la sua esperienza «trova la sua autentica risposta solo nella Croce di Gesù, atto supremo di solidarietà di Dio con noi, totalmente gratuito, totalmente misericordioso. E questa risposta d’amore al dramma del dolore umano, specialmente del dolore innocente, rimane per sempre impressa nel corpo di Cristo risorto, in quelle sue piaghe gloriose, che sono scandalo per la fede ma sono anche verifica della fede».

Comprendiamo allora che la sofferenza, quando incontra la condivisione e la misericordia, può diventare non ostacolo alla fede ma occasione di scoperta o riscoperta della fede. «Anche quando la malattia, la solitudine e l’inabilità hanno il sopravvento sulla nostra vita di donazione, l’esperienza del dolore può diventare luogo privilegiato della trasmissione della grazia e fonte per acquisire e rafforzare la “sapientia cordis”». Alla fine del racconto biblico ascoltiamo Giobbe esclamare, rivolto a Dio: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto». Questo significa che «anche le persone immerse nel mistero della sofferenza e del dolore, accolto nella fede, possono diventare testimoni viventi di una fede che permette di abitare la stessa sofferenza, benché l’uomo con la propria intelligenza non sia capace di comprenderla fino in fondo».