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Il Papa «All'accoglienza si unisca la missione»

La forza delle radici cristiane contro la «società liquida» è il filo conduttore della visita ad Aquileia. - La campagna di primavera, di A. Busetto

Attualità 09_05_2011
papa venezia

Le radici cristiane hanno fatto dell’Europa e dell’Italia quello che sono. Per grazia di Dio, queste radici si mostrano ancora nell’esperienza quotidiana della Chiesa e della società. Oggi diversi fattori rischiano di farle dimenticare o di soffocarle, creando una «società liquida» senza memoria e senza radici. Rimanere fedeli alle radici è difficile ma possibile. Questo schema in quattro passaggi ritorna in molti viaggi brevi di Benedetto XVI – come in quelli del beato Giovanni Paolo II (1920-2005) – e il Papa lo ha riproposto il 7 e 8 maggio ad Aquileia e Venezia.

Il primo passaggio è la memoria delle radici cristiane. Il Pontefice ha voluto ricordare in Piazza Capitolo anzitutto l’importanza tutta particolare della città di Aquileia, la quale «sorse nel 181 e prosperò nei secoli successivi, come canta il Vescovo poeta [san] Paolino [ca. 750-802]: “… bella, illustre, splendida di palazzi, famosa per le mura e più ancora per le innumerevoli folle dei tuoi cittadini. Tutte le città della Venezia ti erano soggette e ti avevano fatto loro capitale e metropoli, essendo tu fiorente per il tuo clero, e splendida per le chiese, che avevi dedicato a Cristo” (Poetae Latini aevi Carolini, in M.H.H., 1881, p. 142)». Comunità cristiana fecondata dal sangue dei martiri, Aquileia, ha ricordato il Papa, divenne «la nona città dell’Impero e la quarta dell’Italia», e la capitale del cristianesimo in una vasta regione.

Infatti, «la libertà di culto concessa nel IV° secolo al cristianesimo non fece altro che estendere il raggio d’azione della Chiesa di Aquileia, allargandolo oltre i naturali confini della Venetia et Histria fino alla Retia, al Norico, alle ampie Regioni danubiane, alla Pannonia, alla Savia. Andò così formandosi la provincia ecclesiastica metropolitana di Aquileia, a cui Vescovi di Chiese assai lontane offrivano la loro obbedienza, ne accoglievano la professione di fede, si stringevano ad essa nei vincoli indissolubili della comunione ecclesiale, liturgica, disciplinare e perfino architettonica. Aquileia era il cuore pulsante in questa Regione».

Benedetto XVI ha voluto specialmente ricordare il ruolo dei vescovi di Aquileia nella lotta contro l’eresia di Ario (256-336), secondo cui Gesù Cristo non è in senso proprio Dio ma solo la prima creatura di Dio. L’arianesimo sembra un’eresia dimenticata, ma anche oggi non manca di rivivere in chi vede in Gesù Cristo solo un saggio e un maestro, negando la sua divinità. il Papa ha invitato a rileggere il testo di una sua catechesi del 5 dicembre 2007 dedicata a san Cromazio (tra il 335 e il 340-407 o 408), uno dei santi vescovi di Aquileia che difesero la Chiesa «contro il dilagare dell’arianesimo». «Ciò che fece grande la Chiesa che Cromazio amò e servì, fu la sua professione di fede in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo.

Commentando il racconto evangelico della donna che profuma dapprima i piedi, quindi il capo di Gesù, egli afferma: “I piedi di Cristo indicano il mistero della sua incarnazione per cui si è degnato di nascere da una vergine in questi ultimi tempi; il capo, al contrario indica la gloria della sua divinità nella quale procede dal Padre prima di tutti i tempi…. Ciò significa che dobbiamo credere due cose di Cristo: che è Dio e che è uomo, Dio generato dal Padre, uomo nato da una vergine… Non possiamo essere salvati altrimenti, se non crediamo queste due cose di Cristo” (Cromazio di Aquileia, Catechesi al popolo, Città Nuova, 1989, p. 93)».

Nell’omelia di Mestre il Papa ha anche ricordato come dall’antica città veneta sia nato non solo un tessuto di Chiese locali ma una cristianità, una civiltà cristiana: «Attorno ad Aquileia si ritrovarono uniti popoli di lingue e culture diverse, fatti convergere non solo da esigenze politiche ma, soprattutto, dalla fede in Cristo e dalla civiltà ispirata dall’insegnamento evangelico, la Civiltà dell’Amore».

Nei secoli successivi ci fu una certa decadenza di Aquileia, ma emerse l’epopea di Venezia, che ci fa pensare alla navigazione e al commercio ma dove pure – ha detto il Pontefice salutando i veneziani al Molo di San Marco – la fede cattolica «si è radicata sempre più profondamente nel tessuto sociale, fino a diventarne parte essenziale. Ne sono visibile testimonianza le splendide Chiese e le tante edicole devozionali disseminate tra calli, canali e ponti. Vorrei ricordare, in particolare, i due importanti Santuari che, in tempi diversi, vennero edificati dai veneziani in ottemperanza ad un voto, per ottenere dalla Provvidenza divina la liberazione dalla piaga della peste: eccoli di fronte a questo Molo, sono la Basilica del Redentore e il Santuario della Madonna della Salute». E ancora, ha ricordato Benedetto XVI, tre patriarchi di Venezia sono diventati Papi nel secolo XX: san Pio X (1835-1914), «che con il suo esempio di santità continua a vivificare questa Chiesa particolare e tutta la Chiesa universale», il beato Giovanni XXIII (1881-1963) e il servo di Dio Giovanni Paolo I (1912-1978).

Nella basilica di San Marco, preclaro esempio di «catechesi per immagini», Benedetto XVI ha richiamato come proprio «il Servo di Dio Albino Luciani, che fu vostro indimenticabile Patriarca, così descrisse la sua prima visita in questa Basilica, da giovane sacerdote: “Mi trovai immerso in un fiume di luce … Finalmente potevo vedere e godere con i miei occhi tutto lo splendore di un mondo di arte e di bellezza unico e irripetibile, il cui fascino ti penetra nel profondo” (Io sono il ragazzo del mio Signore, Venezia-Quarto d’Altino, 1998)».

Il secondo tema trattato dal Papa è la presenza tuttora viva delle conseguenze delle radici cristiane in un tessuto sociale, quello del Nord Est, che sia pure tra luci e ombre rimane ancora caratterizzato da valori tradizionali e da un solido buon senso. Ha detto Benedetto XVI nella Basilica di Aquileia che «il Nord-est dell’Italia è testimone ed erede di una storia ricca di fede, di cultura e di arte, i cui segni sono ancora ben visibili anche nell’odierna società secolarizzata. L’esperienza cristiana ha forgiato un popolo affabile, laborioso, tenace, solidale. Esso è segnato in profondità dal Vangelo di Cristo, pur nella pluralità delle sue identità culturali». Nel Nord Est, grazie a Dio, «l’orizzonte della fede e le motivazioni cristiane hanno dato e continuano ad offrire nuovo impulso alla vita sociale, ispirano le intenzioni e guidano i costumi. Ne sono segni evidenti l’apertura alla dimensione trascendente della vita, nonostante il materialismo diffuso; un senso religioso di fondo, condiviso dalla quasi totalità della popolazione; l’attaccamento alle tradizioni religiose; il rinnovamento dei percorsi di iniziazione cristiana; le molteplici espressioni di fede, di carità e di cultura; le manifestazioni della religiosità popolare; il senso della solidarietà e il volontariato».

Il terzo tema su cui il Papa ha riflettuto è quello delle difficoltà che fanno ostacolo alla memoria e alla difesa delle radici e dell’identità cristiana. L’uomo moderno, ha detto il Pontefice a Mestre, è «sopraffatto non di rado da vaste ed inquietanti problematiche che pongono in crisi i fondamenti stessi del suo essere e del suo agire». L’eredità cristiana «rischia di svuotarsi della sua verità e dei suoi contenuti più profondi; rischia di diventare un orizzonte che solo superficialmente – e negli aspetti piuttosto sociali e culturali –, abbraccia la vita; rischia di ridursi ad un cristianesimo nel quale l’esperienza di fede in Gesù crocifisso e risorto non illumina il cammino dell’esistenza». Se pure le radici sono ancora presenti, «anche un popolo tradizionalmente cattolico può, tuttavia, avvertire in senso negativo, o assimilare quasi inconsciamente, i contraccolpi di una cultura che finisce per insinuare un modo di pensare nel quale viene apertamente rifiutato, o nascostamente ostacolato, il messaggio evangelico». Viviamo in altre parole – così il discorso al Polo della Salute a Venezia – in «un tempo nel quale si è esaurita la forza delle utopie ideologiche e non solo l’ottimismo è oscurato, ma anche la speranza è in crisi».

A Venezia, «città d’acqua», il Pontefice ha ricordato «un celebre sociologo contemporaneo, che ha definito “liquida” la nostra società, e così la cultura europea: una cultura “liquida”, per esprimere la sua “fluidità”, la sua poca stabilità o forse la sua assenza di stabilità, la mutevolezza, l’inconsistenza che a volte sembra caratterizzarla». Il sociologo – britannico di origine polacca – è Zygmunt Bauman, cui Benedetto XVI aveva già fatto cenno nel suo viaggio in Portogallo del 2010. «Nella storia – ha detto il Papa a Venezia – bisogna scegliere»: «si tratta di scegliere tra una città “liquida”, patria di una cultura che appare sempre più quella del relativo e dell’effimero, e una città che rinnova costantemente la sua bellezza attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle relazioni tra gli uomini e tra i popoli». La scelta, dunque, è fra una «città “della vita e della bellezza”», che riscopre le radici cristiane e se ne alimenta, e una «città “liquida”», dove nulla è stabile e tutto continuamente muta sommerso dai gorghi del relativismo. Dobbiamo scegliere: e tutto dipenderà «in fondo, da questo orientamento fondamentale, che possiamo chiamare “politico” nell’accezione più nobile e più alta del termine».

Nella Basilica di Aquileia Benedetto XVI ha fatto pure cenno alla «crisi sempre più diffusa della vita coniugale», al «crollo della natalità», e ancora alla «ricerca spesso esasperata del benessere economico, in una fase di grave crisi economica e finanziaria, il materialismo pratico, il soggettivismo dominante», «il processo di omologazione provocato dall’azione pervasiva dei mass-media». Vi è poi il delicato problema dell’immigrazione e della nascita di una società multireligiosa, in cui occorre non rinunciare ad annunciare a tutti il Vangelo. «In questo contesto, che in ogni caso è quello che la Provvidenza ci dona, è necessario che i cristiani, sostenuti da una “speranza affidabile”, propongano la bellezza dell’avvenimento di Gesù Cristo, Via, Verità e Vita, ad ogni uomo e ad ogni donna, in un rapporto franco e sincero con i non praticanti, con i non credenti e con i credenti di altre religioni. Siete chiamati a vivere con quell’atteggiamento carico di fede che viene descritto dalla Lettera a Diogneto: non rinnegate nulla del Vangelo in cui credete, ma state in mezzo agli altri uomini con simpatia». Venezia in particolare, ha detto il Papa al Molo di San Marco, ha sempre «corrisposto nei secoli alla speciale vocazione di essere ponte tra Occidente ed Oriente» e ha oggi una speciale opportunità di coniugare le ragioni dell’accoglienza e quelle della missione. E a Mestre ha riconosciuto come dato di fatto la presenza di una «paura degli altri, degli estranei e dei lontani che giungono nelle nostre terre e sembrano attentare a ciò che noi siamo»: una paura cui reagire sia operando per un «armonico e integrale sviluppo dell’uomo e della società», sia proponendo a tutti il Vangelo.

Il quarto passaggio del complessivo discorso del Papa in Veneto riguarda la necessità, perché le radici cristiane tornino a essere il vivo fondamento di una società più rispettosa dei diritti della persona e della legge di Dio, di quella che – come già aveva fatto nel viaggio a Cagliari del 2008 – non ha esitato a chiamare una nuova classe dirigente desiderosa e capace di non sottrarsi alla responsabilità della politica, che per i laici cristiani non è facoltativa. Parlando al Molo di San Marco il Papa ha raccomandato «anche a voi, come alle altre Chiese che sono in Italia, l’impegno a suscitare una nuova generazione di uomini e donne capaci di assumersi responsabilità dirette nei vari ambiti del sociale, in modo particolare in quello politico. Esso ha più che mai bisogno di vedere persone, soprattutto giovani, capaci di edificare una “vita buona” a favore e al servizio di tutti. A questo impegno infatti non possono sottrarsi i cristiani, che sono certo pellegrini verso il Cielo, ma che già vivono quaggiù un anticipo di eternità». Ma – ha aggiunto il Papa nella Basilica di San Marco – per costruire questa nuova classe dirigente la preparazione tecnica non basta: «ci vogliono fedeli laici affascinati dall’ideale della “santità”, per costruire una società degna dell’uomo, una civiltà dell’amore». E «la “santità” non vuol dire fare cose straordinarie, ma seguire ogni giorno la volontà di Dio, vivere veramente bene la propria vocazione, con l’aiuto della preghiera, della Parola di Dio, dei Sacramenti e con lo sforzo quotidiano della coerenza».

S’inserisce qui la riflessione, nell’incontro al Polo della Salute di Venezia, sul titolo di «Serenissima» dato alla Repubblica Veneta, che ha offerto a Benedetto XVI l’occasione di riprendere il tema della politica come sforzo per elevare la città dell’uomo verso la Città di Dio, già accennato nel numero 7 dell’enciclica Caritas in Veritate. «Serenissima» è «un titolo davvero stupendo – ha detto il Papa –, si direbbe utopico, rispetto alla realtà terrena, e tuttavia capace di suscitare non solo memorie di glorie passate, ma anche ideali trainanti nella progettazione dell’oggi e del domani, in questa grande regione. “Serenissima” in senso pieno è solamente la Città celeste, la nuova Gerusalemme, che appare al termine della Bibbia, nell’Apocalisse, come una visione meravigliosa (cfr Ap 21,1 - 22,5). Eppure il Cristianesimo concepisce questa Città santa, completamente trasfigurata dalla gloria di Dio, come una meta che muove i cuori degli uomini e spinge i loro passi, che anima l’impegno faticoso e paziente per migliorare la città terrena. Bisogna sempre ricordare a questo proposito le parole del Concilio Vaticano II: “Niente giova all’uomo se guadagna il mondo intero ma perde se stesso. Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo” (Cost. Gaudium et spes, 39)». A margine – riferendosi a controversie recenti sul Vaticano II – il Papa ha annotato qui che « i Padri conciliari, che ci hanno lasciato questo insegnamento, avevano vissuto l’epoca delle due guerre mondiali e dei totalitarismi. La loro prospettiva non era certo dettata da un facile ottimismo, ma dalla fede cristiana, che anima la speranza al tempo stesso grande e paziente, aperta sul futuro e attenta alle situazioni storiche».

L’obiettivo di chi costruisce speranza nella storia può essere riassunto nel termine «salute»: «una realtà onnicomprensiva, integrale: va dallo “stare bene” che ci permette di vivere serenamente una giornata di studio e di lavoro, o di vacanza, fino alla salus animae, da cui dipende il nostro destino eterno». La vera salute è liberazione «da ogni negazione, fino a quella radicale che è il male spirituale, il peccato, radice velenosa che inquina tutto». E l’autentica salute è Gesù Cristo, che «scioglie l’uomo dalle sue “paralisi” fisiche, psichiche e spirituali; lo guarisce dalla durezza di cuore, dalla chiusura egocentrica e gli fa gustare la possibilità di trovare veramente se stesso perdendosi per amore di Dio e del prossimo». Lo sapevano i veneziani del XVII secolo, che al centro della rotonda maggiore della Basilica della Salute incisero il motto Unde origo, inde salus, «Dov’è l’origine, lì è la salute». L’origine è Maria, che salvò i veneziani dalla peste del 1630, e che ancora oggi invochiamo perché ci salvi dalle tante nuove pesti sociali e spirituali della «società liquida».