Il nuovo redditometro non sia un boomerang
L'Agenzia delle Entrate valuta la capacità di spesa delle famiglie, ma non considera che l'educazione non è una spesa accessoria.
Nel lontano 1965, il Concilio Ecumenico Vaticano II affrontava con un suo documento, tanto importante quanto dimenticato, il delicato tema dell’educazione e della famiglia (Dichiarazione sull’educazione cristiana Gravissimum educationis, del 28-10-1965).
Simili nella sostanza ad alcuni articoli della nostra Costituzione Repubblicana (in particolare artt. 30 e 33), il documento del Concilio contiene affermazioni di enorme importanza, che mantengono inalterata tutta la loro attualità:
“I genitori, poiché hanno trasmesso la vita ai figli, hanno l’obbligo gravissimo di educare la prole: vanno pertanto considerati come i primi e i principali educatori di essa. Questa loro funzione educativa è tanto importante che, se manca, può a stento essere supplita. [...] La famiglia è dunque la prima scuola delle virtù sociali, di cui appunto hanno bisogno tutte le società. [...]
Il compito educativo, come spetta primariamente alla famiglia, così richiede l’aiuto di tutta la società.[…] Rientra appunto nelle sue funzioni (della società ndr) favorire in diversi modi l’educazione della gioventù: cioè difendere i doveri e i diritti dei genitori e degli altri che svolgono attività educativa e dar loro il suo aiuto; in base al principio di sussidiarietà, là dove manchi l’iniziativa dei genitori e delle altre società, svolgere l’opera educativa, rispettando — s’intende — i desideri dei genitori; fondare inoltre, nella misura in cui lo richieda il bene comune, scuole e istituti propri. [...] I genitori, avendo il dovere e il diritto primario e irrinunciabile di educare i figli, debbono godere di una reale libertà nella scelta della scuola. Perciò i pubblici poteri, a cui incombe la tutela e la difesa della libertà dei cittadini, nel rispetto della giustizia distributiva devono preoccuparsi che le sovvenzioni pubbliche siano erogate in maniera che i genitori possano scegliere le scuole per i propri figli in piena libertà, secondo la loro coscienza”.
Tali dichiarazioni, oggi ancora più chiaramente di allora, appaiono ragionevoli e convenienti, data la grave crisi economica ed educativa in cui si trova il nostro paese.
Il grande risparmio (pari a circa 6 miliardi di euro all’anno) che le scuole paritarie garantiscono allo Stato e la possibilità di dar vita ad un sistema scolastico capace di valorizzare e armonizzare tutte le risorse educative della nostra società, facendole convergere nel contesto di un effettivo servizio pubblico, parrebbero argomenti facilmente condivisibili.
Eppure, nel nostro Paese, per questi argomenti continua a non esservi spazio, e ciò nonostante la legge 62/2000 abbia introdotto il concetto giuridico di “parità scolastica”. Di più: invece di abbandonare definitivamente l’ideologia (residuo di un passato ormai giurassico) della scuola privata come scuola dei ricchi, scegliendo fino in fondo la strada dell’attuazione del pieno diritto alla libertà di educazione riconosciuta ai soggetti che ne sono detentori, in primis ai genitori e alle famiglie, c’è chi ha ancora una volta inserito le scuole private fra i beni che concorrono a definire lo status economico delle famiglie….
Il 25 ottobre scorso, infatti, l’Agenzia delle Entrate ha presentato il nuovo redditometro, nel quale le voci di spesa che lo compongono sono considerate “indicative della capacità di spesa”, e fra queste sono presenti le spese per gli asili nido, la scuola per l’infanzia, l’istruzione primaria e secondaria, oltre alle donazioni alle ONLUS e simili. A queste, poi, sono affiancate altre spese che (a differenza delle prime) hanno una oggettiva natura accessoria: viaggi, abbonamenti a pay tv, centri benessere, etc...
Premesso che effettivamente esistono alcune –poche – scuole private paritarie, che esigono rette di frequenza davvero alte e si rivolgono dunque ad una utenza di elìte, occorre precisare che la stragrande maggioranza degli istituti paritari chiede rette modeste, alle quali si affiancano provvidenze degli enti gestori a sostegno delle famiglie meno abbienti. Per questo, le spese per gli asili e le scuole paritarie non possono e non devono essere – in sé ed entro un certo limite - indicatrici di un certo status reddituale. Si tratta, infatti, di spese che tante famiglie sopportano a discapito di un certo tenore di vita e non a riprova dello stesso. Mandare i figli in certe scuole, investire sulla loro educazione, non è una spesa accessoria, ma una priorità che tanti genitori decidono di perseguire, rinunciando –spesso e volentieri- ad altre spese, queste sì davvero opzionali.
Non si può fare di tutta l’erba un fascio. Ricordiamoci che la lotta all’evasione si realizza anche, prima ancora che con i (pur necessari) controlli, migliorando e sostenendo una equa distribuzione dei carichi fiscali. Già, il rispetto della “giustizia distributiva” di cui parlava il documento conciliare. Oltre 50 anni fa ….