STORIA E LETTERATURA
Il naufragio di chi sfida il destino
Dal capitano Achab di Moby Dick
a Robinson Crusoe.
Un viaggio nella letteratura,
tra comandanti e naufraghi,
per riflettere sull'ambizione
e sulla fragilità dell'uomo
dopo la tragedia del Giglio.
Cultura
21_01_2012
Il recente naufragio della “Concordia” ci spinge a recuperare, per suggestione, le grandi figure letterarie e storiche di capitani più o meno coraggiosi, arrivando a figure storiche, realmente esistite, dal nervoso William Bligh, comandante del “Bounty”, sino alla figura, realmente esistita, di Edward John Smith, a capo del “Titanic”, perito nel naufragio del piroscafo.
Letterariamente, si va dal capitano Achab di Melville, posseduto sino alla follia dal desiderio di catturare Moby Dick, la balena bianca –in realtà, un capodoglio, ricordiamolo –sino ai personaggi dei romanzi di Conrad, fra i quali spicca il capitano protagonista di Tifone, MacWhirr. Quest’uomo senza immaginazione e senza slanci, grigio funzionario della marina inglese, che manda alla moglie distratta, inconsapevole dei pericoli corsi dal marito, lettere scarne ed essenziali come bollettini, è la quintessenza del senso del dovere, della capacità di introiettare l’obbligo, sino a rappresentare il quieto eroismo del quotidiano, con cui, spesso, si può prevalere anche sulle calamità naturali: «Prima che la furia rinnovata dei venti si scagliasse sulla nave, il capitano MacWhirr fu indotto a dichiarare, quasi in tono infastidito: “Non mi piacerebbe perderla”. Il fastidio gli venne evitato». (Tifone, conclusione cap. V).
Accanto alla figura del capitano, del comandante, c’è quella, non meno affascinante, del naufrago, protagonista di un vasto filone di letteratura avventurosa, da Robinson Crusoe in poi; e non dimentichiamo nemmeno il mito letterario del tesoro sfuggito al naufragio, magari ispirato a un fatto reale, come nel caso del “Polluce”, colato a picco a largo dell’Elba nel 1841 e che ispirò Alexandre Dumas Père per il tesoro dell’abate Faria nel Conte di Montecristo. Ma il mare e la navigazione, la tempesta e il naufragio, sono anche elementi costitutivi del nostro immaginario profondo, e rappresentano un importante capitolo d’una ricca letteratura metaforica: Dante, nel Convivio, utilizzava l’immagine del “nocchiero” per indicare, in senso traslato, il reggitore del potere civile, e per questo si rifaceva a un ben collaudato topos.
La nave dello stato, sballottata dai marosi delle agitazioni politiche, è infatti già immortalata oltre duemilacinquento anni fa da un celebre frammento di Alceo: “Smarrito io sono dei venti all’impeto: / da questa parte, un’onda rotola; / di là, un’altra onda. Noi nel mezzo / porta tra i flutti la nera nave / fiaccati dalla tempesta indomita. / Già l’acqua il piede cinge dell’albero, / già tutta è strappata la vela: pendono laceri i grandi brani. / cedon le scotte” (fr. 326 Lobel-Page, trad. G. Perrotta). Potrebbe essere la descrizione di un qualsiasi, drammatico, naufragio reale; ma, dalle Hallegoriae Omericae dello Pseudo-Eraclide, noi sappiamo che i versi di Alceo erano allegorici, perché, sotto il velo della metafora, si celava la rappresentazione di Mitilene, la patria del poeta, dilaniata dalle discordie suscitate dal tiranno Mirsilo.
Analogamente, il più reazionario e classista dei lirici greci, Teognide, feroce assertore dei privilegi dell’aristocrazia, utilizza ancora l’allegoria della nave alla deriva, priva di governo: “…calate le vele bianche, andiamo alla deriva, / via dal mare di Melo, a notte scura. / Non vogliono aggottare; entrambe le murate / supera il mare, e qui non ci si salva” (vv. 671-674, trad. F. M. Pontani). Orazio si ricorderà bene di queste liriche, e, a sua volta, verrà preso a modello da Dante. Nell’Ode I, 14, Orazio, infatti, immagina che la nave dello stato sia, ancora una volta, come sempre, vittima della tempesta “Altri flutti riporteranno al largo / la mia nave. Che fai? Guadagna in fretta / il porto. Non ti accorgi / che i remi sono infranti, / l’albero s’incrina in balia dei venti, / cigolano le antenne, e senza trinche / a stento può resistere/ alla furia del mare / la tua chiglia? Non hai vele da issare, /non dei da invocare in altra tempesta” (vv. 1-10, trad. di M. Ramous).
Nel mondo antico, il rischio del naufragio e della morte per mare era sentito come molto reale, e, infatti, lo era: lo testimoniano le decine di epigrammi funerari dedicati alle vittime del mare, spesso immaginati come iscrizioni di cenotafi, tombe vuote, memorie in terra per chi giace sepolto sul fondo del mare. Lo testimonia anche quel senso di vaga inquietudine che pervade anche gli intellettuali più raffinati, come Seneca, il quale non ha nulla da invidiare ai pensatori contemporanei più sottili. Nel coro dell’atto III della sua Medea (vv. 301-376), l’invenzione della prima nave, Argo, e il suo iniziare una perigliosa navigazione alla ricerca del Vello d’Oro, sono avvertiti come un ennesimo esempio di violazione tecnologica della genuina natura primitiva. Da un lato, in linea con un meccanismo mentale connaturato nella mentalità antica, Seneca va in cerca del protos euretés, del primus inventor, in questo caso, della navigazione. Dall’altro, più modernamente, lo scrittore riflette sui meccanismi disastrosi generati dall’eccessiva ambizione di conquista e dominio insita nella natura umana. Non a caso, il coro si apre biasimando, come audax nimium, “troppo audace”, chi, fidando sulle sue capacità tecnologiche, sfidò freta perfida, “i flutti traditori”, le onde infide. La navigazione è un vulnus, una ferita inferta al mare, un nefas, un atto empio, e questo deve mettere in guardia l’uomo, perché la natura violata, prima o poi, si ribellerà allo scempio.
Ma un naufragio che risuoni di una eco mediatica pari a quella degli ultimi giorni, e che sia argomento e oggetto di articoli, servizi giornalistici, intere trasmissioni di approfondimento, diventa anche un oggetto di curiosità, forse anche un po’ morbosa, per gli spettatori: viene in mente l’incipit del libro II del De rerum natura lucreziano, in cui il poeta immagina una scena che, per la potenza evocativa, e le implicazioni simboliche, è diventata proverbiale, il “naufragio con spettatore”: “È dolce, quando sull’impetuoso mare i venti sconvolgono la distesa dell’acqua, osservare dalla terra la grande e penosa lotta di un uomo: non perché quel tormento sia una gioia e un piacere, ma perché è dolce vedere da quali mali si è indenni. È dolce anche guardare i grandi scontri di guerra, con gli eserciti schierati nella pianura, senza aver parte alcuna del pericolo. Ma niente è più dolce che occupare gli alti spazi sereni fortificati dalla dottrina dei saggi, e da lassù contemplare gli altri, vederli errare qua e là e cercare a caso la via della vita, rivaleggiare con l’ingegno, gareggiare con la nobiltà di nascita, sforzarsi notte e giorno con instancabile fatica per levarsi sino ai più alti gradi di ricchezza” (II, 1-13).
Il discorso di Lucrezio è chiaramente allegorico: c’è chi si sforza per tutta la vita, inutilmente, sino ad annaspare e soffocare, teso a conquistare beni ingannevoli; e c’è, invece, chi, dall’alto della saggezza conquistata a costo di un non meno faticoso autodisciplinamento, osserva il naufragio altrui, non con il compiacimento di chi gode dell’altrui dolore, ma con la consapevolezza dei mali da cui ha avuto la forza di salvarsi. E così è per noi: dovremmo fare attenzione a che la nostra attenzione per il fatto di cronaca non diventi curiosità morbosetta, o persino, - il cielo non voglia! - godimento un po’cinico, sui nostri caldi divani, della sciagura che ha coinvolto altri nel freddo mare di gennaio. Il che, purtroppo, è però il meccanismo di base che garantisce e garantirà il successo di tutto un filone di disgraziate trasmissioni dedicate a sciagure & delitti. Questo, però, è anche comprensibile, sotto una certa angolazione, perché, di fronte a tali avvenimenti, anche quando non ci toccano direttamente, le nostre reazioni sono molteplici e stratificate.
Su tutto, prevale un ritrovato senso della nostra fragilità di uomini, la perdita di quella baldanza con cui di solito ci arroghiamo il vanto di potere disporre secondo le nostre comodità e priorità del tempo, delle risorse naturali, della natura, e, in ultima analisi, del destino.