Il Mistero trasforma il carcere oscuro nel tempio divino
Solo il Mistero rende il mondo affascinante e meraviglioso. Quando il mondo è deprivato del Mistero, la realtà ci appare come una prigione tetra da cui si desidera scappare. In Spleen di Baudelaire l’anima geme, oppressa da un cielo che offusca ogni luce. Ma nella celebre Corrispondenze descrive un’intima bellezza che attraversa il mondo.
Se il poeta è come un albatro che si può inabissare nel fango della terra, il mondo appare a Baudelaire talvolta come carcere abitato da ragni e altre volte come tempio meraviglioso in cui ogni elemento ha un’intima connessione con tutti gli altri. Due celebri poesie ci mostrano questa contradditorietà dell’uomo (la sua aspirazione all’assoluto e la fragilità che lo fa precipitare verso le tenebre) e della realtà (miracolo e carcere): Spleen e «Corrispondenze». Solo il Mistero rende il mondo affascinante e meraviglioso. Quando il mondo è deprivato del Mistero, la realtà ci appare come una prigione tetra da cui si desidera scappare. È una questione di sguardo e di attenzione ai particolari.
In Spleen l’anima geme, oppressa da un cielo che offusca ogni luce, più nero che la notte, pesante come un coperchio. La Speranza cerca di scappare, come un pipistrello che sbatte contro i muri. La pioggia disegna le sbarre di una prigione, mentre i ragni sembrano intessere le ragnatele nel nostro cervello. La Speranza è, infine, vinta e l’angoscia può trionfare issando la sua bandiera nera sul cranio del poeta. Un mondo senza luce, senza senso, assurdo e ormai svuotato di ogni ragione e speranza: è uno scenario che anticipa le rappresentazioni di tanti artisti e letterati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Il pittore Van Gogh (1853-1890), geniale innovatore artistico, tanto incompreso in vita quanto apprezzato e rivalutato in morte, usa l’immagine dell’uccellino in gabbia per rappresentare la propria condizione esistenziale. Pirandello (1867-1936), invece, scrive nella lettera alla sorella del 31 ottobre del 1886: «Noi siamo come i poveri ragni, che per vivere han bisogno d’intessersi in un cantuccio la loro tela sottile, noi siamo come le povere lumache che per vivere han bisogno di portare a dosso il loro guscio fragile, o come i poveri molluschi che vogliono tutti la loro conchiglia in fondo al mare». Nel 1893, il pittore norvegese E. Munch (1863-1944) dipinge L’urlo, che è divenuto simbolo dell’angoscia esistenziale, della solitudine in cui si trova l’uomo e dell’incomunicabilità che contraddistingue i rapporti umani. Un volto scarnificato emette un grido che si propaga come un’onda fino a riempire tutta la scena senza per questo toccare e coinvolgere i personaggi rappresentati.
Ma ecco che nella famosissima poesia «Corrispondenze» compare un’immagine assai diversa della realtà. Baudelaire descrive un’intima bellezza che attraversa il mondo. L’uomo ha la percezione di poter arrivare a cogliere la verità che sta oltre il sensibile. Il poeta descrive la manifestazione della sacralità del reale, una sorta di epifania. All’uomo si svela il Mistero della realtà, come per un miracolo. L’eliminazione del velo dell’apparenza, la manifestazione della sostanza e della verità delle cose segnano in maniera indelebile la coscienza del poeta. Il miracolo è questa sorpresa dell’evidenza del senso e del significato. Solo lo sguardo attento e aperto può, però, coglierlo. La realtà è, in poche parole, simbolica, ogni particolare rimanda al senso complessivo, ogni dettaglio è in relazione con tutto, con l’universo.
Per questo ogni particolare ha una sua rilevanza. Così lo esprime Baudelaire: «La Natura è un tempio dove incerte parole/ mormorano pilastri che sono vivi,/ una foresta di simboli che l’uomo/ attraversa nei raggi dei loro sguardi familiari.// Come echi che a lungo e da lontano/ tendono a un’unità profonda e buia/ grande come le tenebre o la luce/ i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi.// Profumi freschi come la pelle d’un bambino/ vellutati come l’oboe e verdi come i prati,/ altri d’una corrotta, trionfante ricchezza// che tende a propagarsi senza fine- così/ l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino/ a commentare le dolcezze estreme dello spirito e dei sensi».
Il mondo appare come un tempio, un’immensa cattedrale, paragonabile ad un bosco. I pilastri sono come piante slanciate verso il Cielo che invitano a sollevare il nostro sguardo dalla terra verso l’azzurro. L’unità profonda della realtà fonde colori, odori, percezioni tattili, secondo il gusto della sinestesia che tanto spazio avrà nei decenni decadenti successivi. L’immagine della cattedrale simile ad un bosco con i pilastri che si trasformano in alberi tornerà qualche anno più tardi nel progetto della cattedrale più importante della contemporaneità, la Sagrada familia di Barcellona, il monumento più visitato nella Spagna contemporanea.
Che cosa permette di vedere l’unità nella molteplicità e nella diversità del reale? Van Gogh scriveva nella lettera al fratello che è un affetto vero che fa dissolvere le sbarre di un carcere come per miracolo. Dante aveva scritto qualche secolo prima nell’ultimo canto del Paradiso: «Nel suo profondo vidi che s'interna,/ legato con amore in un volume,/ ciò che per l'universo si squaderna». In Dio che è amore trova un’unità tutto quello che nell’universo è, invece, separato, incomprensibile, senza legame e senso, come i fogli sparpagliati di un quaderno.