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EUTANASIA

Il medico salva, non uccide Parola di Travaglio

Su Il Fatto quotidiano, dopo il caso Magri, il popolare giornalista prende posizione contro l'ipocrisia di chi sostiene il suicidio assistito.

Attualità 05_12_2011
lucio magri

Venerdì scorso Il Fatto quotidiano ha ospitato un botta e risposta sul suicidio assistito in relazione al gesto di Lucio Magri, che è andato in Svizzera per sottoporsi all’eutanasia. A confrontarsi sono stati il direttore della rivista MicroMega, Paolo Flores d’Arcais e il giornalista Marco Travaglio. Il contributo di quest’ultimo, intitolato «Il medico salva, non uccide», è particolarmente interessante.


Travaglio esordisce dicendo di non voler giudicare Magri, ma aggiunge di considerare «orrenda ipocrisia» la definizione di «suicidio assistito» che andrebbe invece chiamato «col suo vero nome: “Omicidio del consenziente”». Travaglio ricorda che Magri «non era un malato terminale, né tanto meno in coma vegetativo irreversibile tenuto artificialmente in vita da una macchina: era fisicamente sano e integro, anche se depresso». E afferma di voler trattare l’argomento dal punto di vista  logico, giuridico, deontologico e pratico.


«Dal punto di vista logico, non si scappa: chi sostiene il diritto al “suicidio assistito” afferma che ciascuno di noi è il solo padrone della sua vita. Ammettiamo pure che sia così: ma proprio per questo chi vuole sopprimere la “sua” vita deve farlo da solo; se ne incarica un altro, la vita non è più sua, ma di quell’altro. Dunque, se vuole farla finita, deve pensarci da sé».


«Dal punto di vista giuridico – aggiunge Travaglio –  c’è una barriera insormontabile: l’articolo 575 del Codice penale, che punisce con la reclusione da 21 anni all’ergastolo “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Sono previste attenuanti, ma non eccezioni: nessuno può sopprimere la vita di un altro, punto. Se lo fa volontariamente, commette omicidio volontario. Anche se la vittima era consenziente, o l’ha pregato di farlo, o addirittura l’ha pagato per farlo. Non è che sia “trattato da criminale”: “È” un criminale. Ed è giusto che sia così. Se si comincia a prevedere qualche eccezione, si sa dove si inizia e non si sa dove si finisce».


Dal punto di vista deontologico, il giornalista parla del «giuramento di Ippocrate» considerandolo un «muro invalicabile»: «Giuro di… perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza, cui ispirerò con responsabilità e costante impegno scientifico, culturale e sociale , ogni mio atto professionale; di curare ogni paziente con eguale scrupolo e impegno…».


«Come si può – osserva Travaglio – chiedere a un medico di togliere la vita al suo paziente, cioè di ribaltare di 180 gradi il suo dovere professionale di salvarla sempre e comunque? Sarebbe molto meno grave se chi vuole suicidarsi, ma non se la sente di farlo da solo, assoldasse un killer professionista per farsi sparare a distanza quando meno se l’aspetta: almeno il killer, per mestiere, ammazza la gente; il medico, per mestiere, deve salvarla. Se ti aiuta ad ammazzarti è un boia, non un medico».


Dal punto di vista pratico, aggiunge il popolare giornalista, «gli impedimenti alla legalizzazione del “suicidio assistito” sono infiniti. Che si fa? Si va dal medico e gli si chiede un’iniezione letale perché si è stanchi di vivere? O si prevede un elenco di patologie che lo consentono? E quali sarebbero queste patologie? Quasi nessuna patologia, grazie ai progressi della scienza medica, è di per sé irreversibile. Nemmeno la depressione. Ma proprio una patologia passeggera può obnubilare il libero arbitrio della persona che, una volta guarita, non chiederebbe mai di essere “suicidata”».


«E se poi un medico o un infermiere senza scrupoli provvedono all’iniezione letale senza un’esplicita richiesta scritta, ma dicendo che il paziente, prima di cadere in stato momentaneo di incoscienza e dunque impossibilitato a scrivere, aveva espresso la richiesta oralmente? E se un parente ansioso di ereditare comunica al medico che l’infermo, prima di cadere in stato temporaneo di incoscienza, aveva chiesto di farla finita?».


«Se incontriamo per strada un tizio che sta per buttarsi nel fiume – conclude Travaglio – che facciamo: lo spingiamo o lo tratteniamo cercando di farlo ragionare? Voglio sperare che l’istinto naturale di tutti noi sia quello di salvarlo. Un attimo di debolezza o disperazione può capitare a tutti, ma se in quel frangente c’è qualcuno che ti aiuta a superarlo, magari ti salvi. Del resto, il numero dei suicidi è indice dell’infelicità, non della “libertà” di un Paese. E, quando i suicidi sono troppi, il compito della politica e della cultura è di interrogarsi sulle cause e di trovare i rimedi. Che senso ha allora esaltare il diritto al suicidio ed escogitare norme che lo facilitino? Il suicidio passato dal Servizio Sanitario Nazionale: ma siamo diventati tutti matti?».