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IL REPORTAGE

Il mantovano ha sconfitto il sisma (e la burocrazia)

In Emilia le chiese danneggiate dal sisma del 2012 sono chiuse, ma sulla sponda mantovana, dove i danni del terremoto non sono stati minori, 115 delle 129 chiese devastate sono già aperte. Non è merito dello Stato, ma della sussidiarietà e della fiducia della Diocesi nella Provvidenza: «Ci dissero che non sarebbe arrivato nulla: così ci siamo rimboccati le maniche».

Libertà religiosa 17_08_2016
La chiesa di Moglia: grazie ai risparmi della Regione partiranno i restauri

C’è modo e modo per affrontare un terremoto. In Emilia le ferite del sisma del 2012 che ha sconvolto la Bassa emiliana e mantovana sono ancora lancinanti tanto che come ha scritto la Nuova BQ nei giorni scorsi le chiese sono ancora tutte chiuse e i musulmani hanno operato il sorpasso grazie ai fondi della Regione e quelli di una Fondazione del Qatar aprendo la nuova moschea di Mirandola. In provincia di Modena infatti solo 4 delle 52 chiese lesionate della sola diocesi di Carpi, la più in ginocchio, ha potuto riaprire. 

Burocrazia, tempi lunghi dello Stato nell’erogare i fondi, ritardi nelle fasi di approvazione dei progetti, lentezze dei vincoli della Sovrintendenza e imposizioni della stessa più che discutibili. E sopratutto quello sacrificato sull’altare della spending review da Monti prima e poi da Renzi quello è un sisma che ancora vede sanguinare l’Emilia. In definitiva: a parole è ancora tutto un “provvederemo”, ma nei fatti si deve convivere con il più classico dei “bambole non c’è una lira”. Il risultato è che decine e decine di parrocchie della Bassa emiliana sono ormai rassegnate a trascorrere anche il prossimo inverno in un container o, quando va bene, in un prefabbricato o chiese di fortuna. 

Rassegnazione. Da queste parti funziona ormai così: troppo forti i vincoli statali, troppo arcigna la macchina burocratica. E protestare non serve più: il Pd, che controlla la catena politica dai Comuni allo Stato passando per la Regione, snodo fondamentale della gestione commissariale, in questi anni ha scelto di mettere davanti le scuole da sistemare anche perché c’era da sponsorizzare la sbandierata Buona Scuola. Così, le chiese ad esempio, sono finite in coda. E chissà quando verranno riaperte. 

Ma ad alcune vittime dei devastanti terremoti del maggio e giugno 2012 è andata diversamente. Ed oggi può serenamente guardare all’inverno alle porte con tutte le chiese riaperte. Possibile? Sembra proprio di sì, ma per scoprire che non è merito dello Stato bensì di un piccolo miracolo della Provvidenza, bisogna attraversare il Po ed entrare nella provincia di Mantova. Una provincia Cenerentola della stessa Lombardia, troppo padana per competere con brianzoli e meneghini, troppo lombarda per risultare simpatica ai vicini emiliani. 

In questi anni Mantova, che pure ha avuto molte case ed attività economiche distrutte e soprattutto palazzi antichi e Chiese devastate, è stata completamente snobbata da tutti: dai giornali, dallo Stato e dalla stessa Regione. Così, sfruttando l’antico adagio che fa di ogni italiano un eroe nell’armonizzare la necessità con la virtù, Mantova come una formichina, nel silenzio del piagnisteo istituzionale, oggi può presentarsi con le carte in regola. I numeri non mentono: su 129 chiese danneggiate oggi 115 sono state restaurate e riaperte. 

Il paradosso è questo: all’Emilia sono stati promessi il 93% dei fondi statali, ma nessuna chiesa è stata aperta. Sulla sponda lombarda del Po non è stato promesso nulla e le chiese sono tutte riaperte. Che cosa è accaduto? E’ accaduto che fedeli, diocesi e istituzioni si sono rimboccati le maniche e hanno fato da soli.

Il viaggio in questo piccolo grande miracolo italiano della Nuova BQ approda all’ufficio diocesano per i beni culturali  dove il vicario episcopale per i Beni ecclesiastici Claudio Giacobbi non fa mistero di aver scalato una montagna a mani nude. Ma di essere arrivato in cima.

«La diocesi all'indomani del sisma definì la priorità: rientrare in chiesa e assicurare il culto. Quindi consigliò ai parroci di fare tende leggere e non prefabbricati stanziali», ci spiega il sacerdote. «Sapevamo che nella ripartizione dei fondi l'Emilia l’avrebbe fatta da padrona: con il 93% dei soldi dirottati sotto il Po avevamo due strade: o ingaggiare una battaglia politica e istituzionale con i “cugini” e lo Stato per far valere le nostre richieste o arrangiarci. 

La diocesi che fu di San Pio X scelse la seconda strada: incerta, faticosa, ma sicuramente sussidiaria e meno statalista. 

Anche perché i vertici regionali di allora avevano subito tolto ogni speranza ai parroci di potersi presentare col cappello in mano dal capo del governo: «Qualcuno dal Pirellone ci disse che lo Stato non ci avrebbe dato nulla: il 4% spettante a Mantova sarebbe stato destinato alle attività produttive e alle abitazioni, per i luoghi di culto non era previsto nulla. Così, dato che le chiese erano state costruite dai poveri, dai poveri dovevano essere ricostruite».

Si sono rimboccati le maniche e «confidando nella Provvidenza abbiamo iniziato a fare il conto della serva». 

Gli uffici della diocesi si sono messi in moto. «Abbiamo fatto prestiti garantiti dalla diocesi e sottoscritti dalle parrocchie. Ovviamente abbiamo fatto in modo che non si creassero degli squilibri tra una parrocchia e l’altra, ma che i soldi che arrivavano venissero dati a seconda delle esigenze. Certo, ci siamo indebitati, ma d’altra parte la Provvidenza è 2000 anni che ci aiuta per le chiese e per ogni nostra necessità».

Continua Padre Giacobbi: «Non valeva la pena stare ad aspettare le provvidenze pubbliche, se avessimo lasciato passare il tempo avremmo soltanto arrecato dei danni più ingenti, anche perché gli agenti atmosferici influiscono non poco».

Nel frattempo il meccanismo fortunato di sussidiarietà ha funzionato: la Regione ha bandito un fondo di 10 milioni ma il 30% avrebbe dovuto mettercelo la parrocchia; il 75% di quel 70 dovrà essere restituito in 15 anni. Questo ha consentito di recuperare dieci chiese di un certo livello come Sant’Andrea e il campanile di Santa Barbara nel capoluogo. Al resto hanno pensato le polizze assicurative che ancora riuscivano a coprire eventi come il sisma. Oggi le compagnie non assicurano più contro il terremoto, ma quella di stipulare polizze fu, col senno di poi, una felice idea.

«Abbiamo così fatto degli appalti pubblici come modalità, perché invitavamo sempre 3 o 5 imprese e non abbiamo deciso in base al criterio del far vincere gli amici degli amici per velocizzare le pratiche». 

Un grosso aiuto è arrivato ancora dalla Regione, che avendo risparmiato sui contributi della tassazione speciale istituita dopo il terremoto, ha consentito di recuperare altri 12 milioni di euro. «E questo ci darà la possibilità di mettere a posto le 4 chiese più danneggiate come Moglia, San Giovanni del Dosso, Quistello e Bondeno di Gonzaga».

Infine: generosità, tanta. Dai fedeli che ci hanno messo del loro con sottoscrizioni e donazioni agli imprenditori. E poi ancora: mecenati, Diocesi vicine particolarmente sensibili. Tutti, nel rinato “piccolo ducato gonzaghesco” hanno contribuito per cercare di rispondere alla prima e principale delle esigenze: tornare al culto nelle chiese. Un diritto che si è fatto esperienza di comunità viva.

A questo punto risulta indispensabile un confronto con la vicina Emilia. Ma qui Padre Giacobbe rifugge subito l’accostamento. Per evitare polemiche o anche solo per evitare di apparire come il primo della classe. Ma anche perché la gestione del terremoto è nata da criteri diversi. «La diversità non è nel punto di arrivo, ma nel punto di partenza: noi volevamo tornare subito in chiesa e dovevamo farlo a spese nostre, in Emilia hanno scelto di affidarsi alla macchina pubblica e se ti affidi alla macchina pubblica ci sono procedure e tempi che non puoi decidere tu».

Realpolitik ecclesiastica, si dirà. Ma ha funzionato. Sana gestione delle cose, come avrebbe fatto un vecchio curato di campagna quando doveva sfamare le bocche di 5 famiglie di mezzadri. 

Così, mentre il terremoto dell’Aquila passerà alla storia come il sisma della grande abbuffata dei palazzinari romani e quello emiliano come il sisma sacrificato sull’altare della spending review e delle regole ferree in fatto di appalti pubblici per quanto riguarda il controllo massimo sulle imprese a rischio infiltrazioni mafiose, la sponda mantovana può sventolare un principio antico ma ancora valido: aiutati che il Ciel t’aiuta.

«Diciamo che mentre l’Emilia si è fidata degli aiuti di Stato noi ci siamo fidati della Provvidenza». In tempi in cui lo Stato arranca e la politica continua a dare prova di incapacità questo esempio di fede e di certezza nel bene profondo che il culto religioso trasmette nelle comunità civili, fa bene a tutti: politici, amministratori, imprenditori. Perché mette in gioco le nostre misere risorse con i nostri sogni, le nostre esigenze e i nostri sacrifici e li mette a regime in un gioco che si gioca tra il cielo e la terra. Vale la pena di considerare quello di Mantova come un piccolo miracolo. Nel segno della sussidiarietà e della Provvidenza. D’altra parte la storia della Chiesa lo insegna che lo Stato non è un moloch. Se non è utile alla causa, meglio farne a meno.