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CONTINENTE NERO

Il Kenya non sa che farsene dei suoi giovani. Quindi li esporta

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Il presidente Ruto, in Kenya, prende accordi con governi di paesi ricchi e anziani per esportare giovani lavoratori. Perché sono in rivolta contro la corruzione. E perché non sa a creare condizioni per un furturo migliore.

Esteri 15_10_2024
William Ruto, presidente del Kenya (La Presse)

«Prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra». Così affermava Papa Benedetto XVI nel 2013, nel suo Messaggio per la 99esima Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato. Quello di vivere in sicurezza e dignità dove si è nati è in effetti un diritto talmente scontato da non essere stato contemplato dalle Nazioni Unite nella formulazione della Dichiarazione universale dei diritti umani che pure elenca quei diritti dettagliatamente. A nessuno è venuto in mente che fosse necessario reclamarlo.

Le difficoltà di un Paese, il fallimento di un governo nel garantire sicurezza, infondere fiducia, creare condizioni favorevoli alla crescita economica e allo sviluppo si misurano anche dal numero di persone che emigrano, costrette a farlo dalla mancanza di opportunità di lavoro. Lo sa bene l’Italia che ogni anno perde decine di migliaia di giovani. Nel 2022 e nel 2023 se ne sono andati quasi 100mila e circa 377mila erano emigrati nel decennio precedente.

È grave che un governo non riesca a trattenere i propri giovani o che non gli importi di vederli andare via. Sono, e dovrebbe considerarli, la sua risorsa più preziosa. Peggio ancora sarebbe se, a fronte dei problemi economici e sociali che affliggono il suo Paese, un governo, invece di impegnarsi ad attuare politiche volte a creare posti di lavoro e solide prospettive per il futuro, adottasse come rimedio l’emigrazione in massa dei giovani. Sembrerebbe una opzione inverosimile e certo non da annunciare come programma di governo.

Invece qualcuno lo ha appena fatto. È William Ruto, il presidente del Kenya, che sta negoziando accordi con paesi che hanno una popolazione anziana, come la Germania e il Canada, affinché accolgano e diano lavoro ai giovani kenyani.

Il Kenya è un paese a rischio default, gravato di debiti, come tanti altri Stati africani. Le casse dello Stato sono quasi vuote. Per rimpinguarle, all’inizio dell’estate Ruto aveva annunciato l’imposizione di nuove tasse persino su generi alimentari come il pane e lo zucchero, ma le proteste dei giovani della generazione Z (nati tra il 1997 e il 2012) contro la corruzione, continuate nonostante decine di vittime uccise dalla polizia che ha avuto ordine di sparare ad altezza d’uomo, lo hanno costretto a rinunciare e a chiedere invece nuovi prestiti al Fondo monetario internazionale e a cercare finanziamenti da paesi amici.

Uno di questi, tra i più stretti, è l’Italia che ha incluso il Kenya tra i destinatari dei primi progetti pilota nell’ambito del Piano Mattei. Nei giorni scorsi inoltre l’ambasciatore italiano in Kenya, Roberto Natali, ha incontrato il ministro kenyano dei trasporti e delle strade per parlare dell’ampliamento dell’aeroporto di Malindi, una città turistica sulla costa swahili, e delle strade che lo collegano ai principali centri urbani e il ministro italiano delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso, in visita al paese ha dichiarato che il Kenya è un partner strategico per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale in Africa e tra i progetti da realizzare ha proposto il potenziamento del centro spaziale “Luigi Broglio”, costruito nel 1966 per il lancio di satelliti, ma che dal 1988 non ne ha più effettuati. Ruto è anche molto apprezzato dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden che lo scorso maggio, oltre a promettere nuovi, ingenti investimenti, ha scelto il Kenya come primo paese dell’Africa sub sahariana a ricevere il titolo di “importante alleato non-NATO”.

L’idea del presidente Ruto è di riuscire a trasferire all’estero centinaia di migliaia di giovani per ovviare alla disoccupazione che nella fascia d’età giovanile è del 35%. «La nostra forza lavoro è la nostra risorsa più grande – assicura orgogliosamente – è ben preparata e laboriosa». Con la Germania un primo accordo, siglato a settembre, prevede l’impiego di tremila autisti di autobus, assunti da una società di trasporti. Ruto ha assicurato che la Germania garantirà ai giovani kenyani laureati 250mila posti di lavoro, ma su questo è stato smentito dal governo tedesco secondo cui l’intesa firmata non indica per ora una quota specifica. Altri accordi sono già stati conclusi dal Kenya con alcuni paesi della Penisola arabica e con il Canada. Con quest’ultimo l’impegno del Kenya è di mandare medici, infermieri e fisioterapisti, il che, per inciso, è quanto meno sconcertante dal momento che uno dei problemi del sistema sanitario kenyano è l’insufficienza di personale. Ha infatti 0,16 medici ogni mille abitanti ( l’Italia, ad esempio, ne ha 3,95 e la Germania 4,4).

Centinaia di migliaia, meglio ancora milioni di giovani kenyani all’estero allenterebbero le tensioni in patria, o almeno così spera il presidente che inoltre usa come argomento persuasivo le rimesse. Nel 2023 i kenyani all’estero hanno mandato in patria l’equivalente di 3,8 miliardi di euro, serviti in gran parte a integrare i redditi di tante famiglie in crescente difficoltà a causa del continuo aumento del costo della vita.

«Ruto è presidente dal 2022. Dopo due anni in carica – commenta lo scienziato politico Dauti Kahura – è estremamente impopolare, specialmente tra i giovani della generazione Z. A quanto pare la sua risposta alle recenti proteste è promettere lavoro all’estero».  «Ruto è il primo presidente a rendere apertamente l’esportazione di lavoratori una politica governativa – aggiunge un altro studioso, Njahira Gitahi – il progetto è in cima alla sua agenda politica. È un fatto senza precedenti». Lo è tanto più in ragione del fatto che Ruto aveva impostato la campagna elettorale sui diritti della gente comune contro le elite corrotte e piene di privilegi e in particolare sui giovani disoccupati e su quelli impiegati nel settore informale con i quali si era impegnato a creare posti di lavoro. «Ma non aveva mai detto che intendeva mandarli all’estero – osserva Githai – a scuola ai keniani si insegna che la fuga dei cervelli era un pericolo per il paese, che lo priva dei suoi dottori e ingegneri. Trovo difficile vedere come possiamo costruire una nazione se la priviamo della sua linfa vitale».

Trenta anni fa la sociologa camerunese Axelle Kabou, autore del libro “E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?” accusa i leader africani e diceva: «Siamo una generazione oggettivamente privata del futuro». Mai avrebbe pensato che un leader progettasse per i giovani africani un futuro in terra straniera.