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AFRICA

Il Kenya è alla fame, ma i politici sperperano

Sono ormai 12 milioni gli affamati nel Corno d'Africa. Ma i governanti kenyani si aumentano lo stipendio.
- Siccità? E' madre natura, di G. Bertoni

Attualità 08_08_2011
fame
Kenya, Etiopia, Gibuti, Somalia. Gli affamati da assistere in questi quattro paesi aumentano di giorno in giorno e hanno ormai ampiamente superato i 12 milioni. Da un corrispondente che vive a Eldoret, Kenya, proprio ai margini di una delle regioni più colpite dalla siccità, giunge la conferma che i kenyani in attesa di assistenza sono saliti a quattro milioni, quasi il doppio rispetto al mese di marzo. Nel solo nord est, una delle zone meno popolate del paese, 720.000 persone necessitano aiuto con estrema urgenza e già si sono registrati numerosi decessi per inedia. L’emergenza umanitaria interessa persino i distretti costieri di Kilifi, Magarini e Kwale, benché benedetti da una redditizia industria turistica in piena espansione. Nell’immediato entroterra le tribù agricole Mijikenda hanno perso molti raccolti e rischiano di perdere tutto il bestiame, ucciso dalla siccità, o di doverlo abbattere per cibarsene.

Ai Mijikenda prestano soccorso, tra gli altri, i numerosi italiani residenti a Malindi, impiegati nel settore del turismo. Grazie a una colletta alla quale partecipano anche dall’Italia cittadini italiani e somali della diaspora, oltre a raccogliere denaro, acqua e derrate alimentari – riso, olio, farina, datteri... – per i somali del campo profughi di Dadaab, si sono attivati per distribuire periodicamente cibo e acqua alle comunità costiere.

Ma apprendiamo dalla stessa fonte residente a Eldoret che intanto, proprio mentre il governo del Kenya fa appello alla generosità dei donatori internazionali, i parlamentari, come se la cosa non li riguardasse, rivendicano un aumento della loro retribuzione mensile (da 6.750 euro a 8.730, in un paese in cui chi percepisce uno stipendio di 70 euro mensili può considerarsi fortunato) e ulteriori agevolazioni e privilegi oltre a quelli di cui già godono.

In Kenya non sono è in Somalia dove sono la guerra e la mancanza di un governo effettivamente operativo a trasformare una mancata stagione delle piogge in tragedia. L’atteggiamento indifferente dei parlamentari rientra nella logica di una classe dirigente responsabile di un apparato statale inefficiente e di una corruzione dilagante a ogni livello del sistema politico e amministrativo che vanificano ogni progetto di sviluppo.

Non è neanche vero, infatti, che l’attuale carestia sia un’emergenza eccezionale, imprevedibile, dovuta a insoliti cambiamenti climatici. Lo spiega, meravigliandosi per la lentezza con cui la macchina governativa degli aiuti si è messa in moto, monsignor Dominic Kimengich, vescovo di Lodwar, sperduta cittadina in prossimità del Lago Turkana: “Questa è da sempre una zona arida; perché le scorte non sono state messe da parte prima?”. La scarsità di cibo qui è un fenomeno stagionale. Spesso, come sta accadendo ora, diventa carestia che interessa vaste regioni per periodi prolungati. Allora i rapporti tra le comunità, specie quelle dedite alla pastorizia sempre in competizione per il controllo di punti d’acqua e pascoli, si fanno più tesi e si moltiplicano le razzie di bestiame e di altri beni per i quali non si esita a uccidere. In questo periodo quasi ogni giorno ai morti per fame si aggiungono le vittime degli scontri armati tra comunità antagoniste che difendono le loro proprietà e attentano a quelle altrui.

Il ricordo delle perdite e dei danni subiti è un’eredità che, anche in tempi meno difficili, mantiene poi vivi ostilità, risentimento e diffidenza tra le comunità e le famiglie. Monsignor Kimengich ricorda inoltre che tra le conseguenze negative di ogni grave crisi alimentare – in Kenya questa è la seconda dall’inizio del secolo – oltre al diffondersi di malattie che i fisici debilitati dalla denutrizione non sono in grado di combattere, si annovera la chiusura di molte scuole. Le famiglie si spostano in cerca di salvezza, le mense non sono più in grado di dar da mangiare agli alunni, molti dei quali non hanno la forza di raggiungere le sedi scolastiche distanti spesso chilometri da casa. L’istruzione interrotta è un danno di lungo periodo, spesso irreparabile.