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Medio Oriente

Il “kafala”, un moderno sistema di lavoro forzato

Più di due milioni di emigranti, per lo più giovani donne provenienti da paesi africani e asiatici, lavorano in condizioni simili alla schiavitù a causa di un sistema di assunzione noto come kafala

Migrazioni 09_05_2019

Nel  2016 l’Organizzazione internazionale del lavoro ha realizzato uno studio sui lavoratori domestici stranieri in Libano: oltre 250.000 donne, per lo più di età compresa tra 20 e 30 anni, provenienti da diversi paesi asiatici e africani, soprattutto Etiopia, Kenya, Bangladesh, Sri Lanka e Filippine. È risultato che la maggior parte di esse sono emigrate ricorrendo a un sistema di assunzione chiamato “kafala”, in genere gestito da agenzie di intermediari che procurano alle emigranti uno “sponsor” grazie al quale possono entrare nel paese legalmente. Lo sponsor quasi sempre è il datore di lavoro e il sistema vincola la residenza legale dell’immigrata al contratto stipulato con lui. Quindi non le è consentito cambiare attività senza il suo consenso o interrompere unilateralmente il rapporto di lavoro. In pratica la sua permanenza nel paese dipende dal suo “sponsor”. Questo fa sì che le donne immigrate spesso lavorino in condizioni di sfruttamento: bassi salari, orario di lavoro prolungato, mansioni e incombenze eccessive. Non di rado, inoltre i datori di lavoro approfittano della situazione per infliggere alle dipendenti abusi, maltrattamenti, violenze sessuali. Le lavoratrici sanno che se protestano rischiano di perdere il permesso di soggiorno, essere arrestate ed espulse. Accettano quindi lo status di semi schiavitù in cui finiscono per aver fatto ricorso al kafala. In seguito alla pubblicazione dello studio dell’Oil si è accertato che lo stesso sistema di assunzione è in uso in altri paesi del Medio Oriente e interessa più di due milioni di emigranti. Gli stati in cui è adottato più di frequente sono Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Iraq, Kuwait, Oman.