Il "Grande balzo" di Mao: un salto da 36 milioni di morti
Trentasei milioni di morti, tra il 1958 e il 1962, dovuti alla lucida follia ideologica di Mao Zedong. E al suo “Grande balzo" in avanti che mirava a trasformare il Paese da agricolo a industriale. A fare i conti il giornalista cinese Yang Jisheng che a 75 anni ha visitato l’Occidente, ospite a Torino dell’Istituto Bruno Leoni.
Quando nella provincia del Sichuan la famosa scrittrice cinese Zhang Yihe (nata nel 1942) venne accusata di essere un elemento controrivoluzionario, suo padre Zhang Bojun (1895-1969) le disse: «Devi assolutamente sopravvivere! Anche se da fuorilegge nascosta tra le sterpaglie, devi assolutamente sopravvivere!» Affranta, Zhang Yihe rispose: «E dove trovo le sterpaglie?». L’episodio lo racconta il giornalista cinese Yang Jisheng, classe 1940, che a 75 anni in maggio è uscito per la seconda volta nella vita dal suo Paese (la prima fu nel 2013 per ricevere l’Hayek Book Prize and Lecture dal Manhattan Institute for Policy Research di New York) e per la prima ha visitato l’Occidente, ospite a Torino dell’Istituto Bruno Leoni (Ibl)
Un giorno del gennaio 1958, nella città di Nanning, capitale della regione del Guangxi Zhuang nel meridione della Cina, la lucida follia ideologica di Mao Zedong (1893-1976) annunciò il secondo piano quinquennale di riforma economica. La baldanzosa retorica del despota comunista lo volle chiamare “Grande balzo in avanti”, perché con esso mirava a trasformare rapidamente il Paese da agricolo a industriale. Il traguardo era raggiungere la produzione siderurgica della Gran Bretagna entro 15 anni: tutto doveva però cominciare raddoppiando la produzione di acciaio cinese nell’anno seguente. Piccolo particolare, mancavano materia prima e strutture. Fu allora che con decreto del partito-Stato si stabilì che ogni famiglia dovesse dotarsi di piccole fornaci “da cortile”. I cinesi fusero tutto, ma proprio tutto, persino quegli unici pentolini con cui riscaldavano un po’ di brodaglia. Dopo di che fu la fame nera. E persino il cannibalismo. Dopo due anni, l’assurdo piano quinquennale si era già mutato in una carestia disastrosa, proseguita sino al 1962. Un’ecatombe. Quante persone morirono?
A fare i conti per la prima volta per bene è stato proprio Jisheng. Furono 36 milioni i morti abbattuti dalla follia maoista tra il 1958 e il 1962, un numero da capogiro. Jisheng lo ha spiegato con un discorso magistrale che ora l’Ibl rende disponibile gratuitamente online, n. 100 della serie “Occasional Paper”, con il titolo La Grande carestia cinese (1958-1962). Cronaca di un’economia pianificata (clicca qui). Tra titolo e sottotitolo vi è una correlazione sostanziale. Non successe, infatti, che per un malaugurato incidente un giorno l’immensa Cina si sia trovata letteralmente senza più nulla da mangiare. Accadde invece che, in obbedienza fanatica a una previsione economica assurda fondata su idee, princìpi e calcoli sbagliati il Paese sia inevitabilmente sprofondato nell’abisso. Nessuna buona intenzione finita male, insomma: solo la conseguenza logica di una premessa disumanamente omicida. Jisheng è (ovviamente) un ex. 50 anni fa, nel 1964, s’iscrisse al Partito Comunista Cinese. Nel 1966 si è laureato all’Università Tsinghua di Pechino e subito ha iniziato a lavorare alla Xinhua News Agency, l’agenzia di stampa del governo (per statuto il suo presidente è membro del Comitato Centrale del Pc cinese), dove è rimasto fino alla pensione, nel 2001. Ma Jinsheng non è più stato quello di una volta dal giorno del massacro di Piazza Tienanmen, nel 1989. Quel giorno tutta la sua granitica fede nel comunismo e nella “versione ufficiale” è andata in pezzi. Ed è stato così che, spinto dalla voglia di contribuire a fare ammenda, si è messo a indagare nell’armadio del regime scoprendovi un numero immenso di scheletri.
Da una messe enorme di documenti e di testimonianze di prima mano (tra cui diverse interviste ai sopravvissuti), nel 2008 Jisheng ha pubblicato una mastodontica opera di 1208 pagine in due volumi, unica per acribia, ma soprattutto perché per la prima volta il conto delle vittime lo fa con criteri oggettivi. Totale, 36 milioni di morti: non per arrotondamento, con certezza. Tradotto in francese, in tedesco e in inglese in un’edizione condensata che ne ha ridotto la mole della metà con il titolo Tombstone: The Untold Story of Mao's Great Famine (Penguin, Londra 2012), in italiano resta impossibile leggere l’insostituibile libro di Jisheng. Eppure è un documento straordinario, imperdibile. Una delle cose che più sconcerta, del resto, è il fatto che di tragedie immani così non si parli oramai più. Il totalitarismo comunista sembra consegnato ai ricordi archeologici di qualche parruccone o al più viene considerato come la manifestazione folcloristica di qualche ritardatario cronico sui tempi della storia. Ma dei suoi milioni e milioni di morti, 36 solo nei quattro anni del folle “Grande balzo in avanti” cinese, non resta più nulla, praticamente nemmeno la memoria.
E pensare che il governo cinese di oggi, che un po’ tutti si affanno a blandire per ingraziarsene favori e investimenti, qualche tetro legame con quel passato omicida lo deve pur avere se l’originale in lingua cinese del libro di Jisheng ha dovuto essere pubblicato nell’“isola” filo-occidentale di Hong Kong dalla Cosmos Books, mentre nel resto della Repubblica Popolare Cinese ne è assolutamente proibita a tutti la lettura.