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CRISI DI FEDE

Il gran rifiuto dei vescovi

Un sacerdote su tre rifiuta la nomina a vescovo, numero triplicato rispetto a dieci anni fa. È il segno di una crisi di identità profonda, provocata anche dal modo in cui oggi la Chiesa stessa ha reso difficile fare il vescovo. E la crisi di fede, con tutta evidenza, non riguarda solo quel vescovo su tre.

Editoriali 21_12_2019

Da una dichiarazione del cardinale Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i vescovi, risulta che un sacerdote su tre (il 30 per cento, ha detto il cardinale) rifiuta la nomina a vescovo, cifra triplicata in dieci anni. Secondo il cardinale il sintomo rivela una crisi di fede. La sua valutazione è pienamente condivisibile, però forse è bene riflettere su alcuni motivi che contribuiscono oggi più di ieri a generare questa crisi di fede di fronte all’ordinazione episcopale.

Il vescovo oggi fatica a fare il vescovo e tale fatica è tanto grande da spaventare la fede di uno su tre. Non deriva tanto dall’esterno, ossia dalla società scristianizzata per la quale quella di vescovo è una carica dalla poca importanza, ma dall’interno: è la Chiesa stessa a rendere faticoso fare il vescovo. Il discorso, per una Chiesa “apostolica” è di enorme rilevanza. La verità della nostra fede, l’efficacia dei sacramenti, l’unità della comunità nella vera carità si fonda sulla successione apostolica. I vescovi sono i successori degli Apostoli. Eppure la denuncia di Ouellet indica che proprio lì oggi c’è una crisi di identità profonda, proprio lì c’è una fatica da sopportare che molti rifiutano, proprio lì senso e non senso si incontrano a rendere il punto confuso, mentre proprio lì dovrebbe esserci la massima chiarezza, per la luce di tutti i fedeli.

La Chiesa di oggi è intenta ad esaltare il vescovo come pastore, ma spesso lo declassa solo a pastore. Egli può perdere di vista l’idea di essere colui che deve stare davanti e guidare il cammino, perché gli hanno insegnato che invece deve stare dietro al suo popolo per esserne al servizio. Ha il compito di insegnare, ma la nuova teologia dice che la fede non si insegna ma si testimonia, che la dottrina è incerta e solo la pastorale è sicura, ed ecco il vescovo che gira per le parrocchie a inaugurare incontri, a baciare bambini, ad abbracciare poveri. Ha il compito di santificare ma non può permettersi più di tanto di disciplinare la liturgia eucaristica fuori degli schemi di convenienza correnti. Ha il compito di governare, ma è di fatto impedito di applicare il codice di diritto canonico e nella sua diocesi le parrocchie si gestiscono molto a modo loro, salvo le apparenze. La vita del vescovo è difficile. La sua linea non sempre è la linea della diocesi e non è mai la linea di tutta la diocesi. Capita infatti spesso che passano i vescovi ma le diocesi rimangono tali e quali, a parte qualche aggiustamento di convenienza. Capita anche che i sacerdoti si riposizionino in vista del cambiamento del vescovo.

I vescovi non hanno più veramente in mano la loro diocesi. Devono mediare ed accontentarsi su molte questioni. I loro sacerdoti sono formati da altri, sui quali essi non hanno granché di potere. Sono i teologi, i rettori e docenti dei seminari, i presidi delle facoltà teologiche le quali dipendono da Roma e non dai vescovi che vi mandano i sacerdoti a studiare. Spesso dai seminari escono sacerdoti che intendono le cose in modo diverso o anche opposto al loro vescovo. È difficile dirigere un’orchestra se non si possono scegliere i musicisti.

Non hanno più in mano la loro diocesi anche perché un certo uso della sinodalità li fa dipendere dalle decisioni condivise delle Conferenze episcopali regionali o nazionali. Lo slogan è “camminare insieme tra diocesi sorelle” e ciò produce certamente anche solidarietà pastorale ma talvolta – o spesso – impedisce ad un vescovo di dire la sua se prima non c’è stato un pronunciamento comune dei vescovi della regione. Spesso il vescovo si ritrova funzionario di un apparato e deve stare attento a quello che dice nelle sue lettere pastorali o nei suoi discorsi o omelie.

Infatti, se ci pensiamo bene, i vescovi oggi sembrano scomparsi. Stanno per la maggior parte in silenzio. Oppure dicono tutti le stesse cose perché si affidano a quel minimo comun denominatore ecclesialmente corretto che non disturba nessuno. Questo clima trasforma in eroi della comunicazione alcuni vescovi – pochi e sempre quelli – che parlano chiaro pur non dicendo niente di nuovo. Il sentirsi funzionari di un apparato richiede di uniformarsi all’apparato e permette di trasformarsi mentre si trasforma l’apparato. Ma questo confligge con il dovere del vescovo di essere vera guida fino in fondo dei propri fedeli e di “difenderli dai lupi”. In questi ultimi tempi abbiamo dovuto sentire da vescovi numerose sciocchezze teologiche e si è avuta l’impressione che qualcuno lo facesse a gara, per saltare sulla novità dei segni dei tempi. Il conformismo da un lato fa tacere tanti e dall’altro fa parlare altrettanti. Oggi talvolta i laici si trovano davanti al non piacevole dovere di correggere i vescovi.

Se questa è – almeno a grandi linee – la situazione, si può capire il diniego alla nomina a vescovo. Ma non lo si può giustificare, perché si è chiamati all’episcopato indipendentemente dalla situazione e, magari, proprio per cambiarla. E questo fa ritornare il discorso alla crisi di fede, che non è però solo di quel 30 per cento che rifiuta la nomina.