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CONTINENTE NERO

Il flop africano della Corte Penale Internazionale

Quando fu istituita nel 2002, la Corte Penale Internazionale fu salutata come una nuova Norimberga permanente, in grado di processare criminali di guerra e genocidi in tutto il mondo. A 14 anni di distanza, sono poche le cause avviate e tutti gli imputati sono in Africa. Sempre più paesi del "continente nero" si ribellano ed escono dalla Cpi, da ultimo il Gambia.

Esteri 07_11_2016
La sede della Corte Penale Internazionale

Incriminare l’Unione Europea per la morte in mare degli africani trasportati dagli scafisti. A chiederlo alla Corte penale internazionale, Cpi, è stato il Gambia, un paese dell’Africa occidentale. La Corte non ha accolto la proposta. Per il presidente Yahya Jammeh questo è stato l’ultimo intollerabile affronto e ha quindi deciso che il suo paese non aderirà più alla Cpi. Il 25 ottobre, nel darne annuncio, il ministro dell’informazione gambiano Sheriff Bojang ha affermato che la Cpi è un’istituzione dei bianchi, che perseguita e umilia la gente di colore, in particolare gli africani: “da quando è stata creata – ha detto – molti paesi occidentali, almeno 30, hanno commesso atroci crimini di guerra contro stati sovrani indipendenti e contro i loro abitanti e non un solo criminale di guerra occidentale è stato incriminato”. Altri capi di stato e di governo africani protestano da tempo, con gli stessi argomenti, e meditano di seguire l’esempio del Gambia. Ecco perchè.

La Cpi, a cui l’Italia ha aderito, ha giurisdizione internazionale, a esclusione dei paesi che non ne hanno ratificato lo statuto di fondazione, e ha competenza su reati di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La sua funzione è perseguire persone che altrimenti resterebbero impunite perchè gli stati in cui commettono i loro crimini e quelli di cui sono cittadini non sono in grado o non sono disposti a farlo. È stata fortemente voluta dall’associazione Non c’è pace senza giustizia di Emma Bonino e dal Partito radicale transnazionale secondo i quali, grazie ad essa, i responsabili avrebbero finalmente pagato per i loro crimini e si sarebbero impedite altre violazioni dei diritti umani. Nel 2002 l’inaugurazione del nuovo organismo è stata celebrata come una svolta storica: la Cpi, si è detto, “sarà preziosa per prevenire altri crimini di guerra e contro l’umanità” (Giovanni Conso, Presidente della Conferenza Onu per l’istituzione della Corte), rappresenta “un ulteriore passo verso un più solido sistema di giustizia internazionale” (Marco Bortolotto, Amnesty International), “è una risorsa sicura ed efficace per le vittime delle violazioni più gravi” (Mary Robinson, Alto commssario Onu per i diritti umani). 

Ma così non è stato. La Cpi non è servita a prevenire i crimini, non si è dimostrata una risorsa efficace e in 14 anni ha esaminato solo una manciata di casi. I processi in corso sono tre e sei quelli conclusi con la decisione dei giudici di assolvere gli imputati o di non procedere per mancanza di prove. Inoltre la Corte ha emesso cinque mandati di cattura tuttora in attesa di esecuzione. Tutti i 14 imputati sono africani, così come lo sono nove dei 10 paesi su cui la Corte indaga e cinque dei 10 per i quali ha avviato un’indagine preliminare. È questo che offende Yahya Jammeh e gli altri capi di stato africani; e soprattutto li allarma perchè tra gli imputati figurano due loro colleghi e un vicepresidente in carica, i cui casi peraltro provano quel che avrebbe dovuto essere chiaro fin dall’inizio e cioè che, senza la collaborazione degli stati membri, la Corte è impotente. 

Per il presidente del Sudan Omar Hassan al Bashir, accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella provincia sudanese del Darfur, è stato spiccato un mandato di cattura nel 2009 e un altro nel 2010. Al Bashir ha rifiutato di consegnarsi alla giustizia. Gli stati membri della Cpi sono quindi tenuti ad arrestarlo se entra nei loro territori, ma quelli africani rifiutano di farlo. Il presidente del Kenya Uhuru Kenyatta e il suo vice William Ruto, accusati di aver fomentato i disordini verificatisi nel 2008 dopo le elezioni politiche, hanno invece accettato di essere giudicati, ma sono stati prosciolti per mancanza di prove, dopo che per anni il governo del Kenya ha rifiutato di consegnare alla Cpi dei documenti ritenuti importanti e diversi testimoni hanno ritrattato, si suppone su pressioni e intimidazioni da parte degli imputati. 

La libera circolazione di al Bashir in Africa più volte ha creato imbarazzo e suscitato le rimostranze della Cpi, ad esempio nel 2015 quando il presidente ha partecipato in Sudafrica a un vertice dell’Unione Africana e il governo sudafricano gli ha permesso di tornare in Sudan. Per evitare ulteriori problemi, il 21 ottobre il Sudafrica ha deciso di uscire dalla Cpi adducendo la motivazione di non essere disposto ad arrestare un capo di stato poichè questo comporta un cambiamento di regime che può creare instabilità: “perseguire la giustizia – ha detto un portavoce governativo – non sempre significa difendere la pace”.

La decisione di Gambia e Sudafrica segue di poco quella del Burundi il cui parlamento ha votato l’uscita dalla Cpi il 12 ottobre “per affermare la piena sovranità del paese e renderlo veramente libero”. “Siamo pronti ad affrontare tutte le conseguenze del nostro gesto” ha detto il vice presidente Gaston Sindimwo. Ma la prima conseguenza è poter impedire un’indagine della Cpi sulle violazioni dei diritti umani compiute nel paese a partire dall’aprile del 2015, quando il presidente Pierre Nkurunzinza ha annunciato di volersi candidare per un terzo mandato in violazione della costituzione scatenando proteste duramente represse dalle forze di sicurezza. 

Tre processi in corso, sei conclusi, cinque mandati di cattura e un costo esorbitante. Il bilancio della Cpi, a cui provvedono gli stati membri, dai 53 milioni di euro dei primi anni è salito a 153 milioni nel 2016, 23 in più rispetto al 2015.