Il "family day" nel Malawi, per la famiglia e la vita
Col pretesto di liberarsi di "leggi coloniali", il Malawi vuole introdurre l'aborto e legalizzare l'omosessualità. Ma inizia la protesta pubblica organizzata dalla Conferenza Episcopale e dagli evangelici, la prima nel suo genere. In un paese, però, in cui la donna è ancora ostaggio di pratiche tribali violente, che la privano di ogni dignità.
Si mobilitano e si dividono i cristiani in Malawi mentre il parlamento sta valutando alcuni emendanti alle leggi, definite “eredità dell’epoca coloniale”, che proibiscono aborto e atti omosessuali, punibili entrambi con pene fino a 14 anni di prigione. Nel 2010 in effetti due omosessuali erano stati condannati per aver celebrato il primo matrimonio tra persone dello stesso sesso nella storia del paese.
L’allora presidente Bingu wa Mutharika li aveva accusati di crimini contro la cultura e la religione, ma li aveva poi graziati per “motivi umanitari” dopo un incontro con il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon. Quindi, due anni fa, la legge contro l’omosessualità è stata sospesa in attesa appunto di una revisione. Il 25 novembre il governo ha annunciato che si svolgeranno delle consultazioni popolari per capire che cosa ne pensano i cittadini. Quanto all’aborto, la proposta al vaglio del parlamento è di legalizzarlo a certe condizioni: se la salute della madre è a rischio, se il feto presenta gravi malformazioni e quando la gravidanza è frutto di stupro, incesto e abuso sessuale su una minorenne.
Il 6 dicembre la Conferenza episcopale e l’Associazione evangelica del Malawi hanno organizzato una marcia di protesta, la prima iniziativa del genere. La Marcia dei cittadini per la vita e la famiglia ha radunato migliaia di persone provenienti da varie parti del paese che hanno percorso le vie della capitale Lilongwe portando manifesti contro l’aborto e l’omosessualità. Tuttavia il Consiglio delle Chiese del Malawi, un organismo che comprende 25 Chiese e 20 organizzazioni religiose cristiane, intende invece sostenere la depenalizzazione dell’aborto in ragione dell’elevato numero di donne che muoiono per le conseguenze di aborti clandestini, eseguiti in condizioni pericolose.
A decidere di abortire rischiando la vita sono in effetti molte donne, spesso poco più che bambine, vittime di violenza sessuale e, non di rado, di norme e istituzioni eredità molto più antiche di quella coloniale. Si è concluso il 22 novembre il processo a Eric Aniva, detto “uomo iena”, reo confesso di aver avuto rapporti sessuali con 104 donne sapendo di essere Hiv positivo. A luglio, quando era stato arrestato, del suo caso si era occupato il capo dello stato Peter Mutharika in persona, chiedendo che la “Iena” venisse giudicata per aver contagiato le sue vittime
Ma alla fine solo due donne si sono presentate in aula per testimoniare e così Eric Aniva se l’è cavata con 24 mesi di lavori forzati per “pratiche culturali nocive”. Le pratiche a cui si fa riferimento sono le istituzioni di alcune tribù. Impongono che le adolescenti appena dopo la prima mestruazione e le vedove subito dopo la morte del marito abbiano rapporti sessuali con un uomo estraneo, per purificarsi. Eric Aniva, come altri “uomini iena”, faceva questo di mestiere, retribuito. Quei rapporti sessuali li ha avuti su richiesta dei famigliari delle sue vittime: vittime due volte, per essere state costrette a “purificarsi”, per non incorrere nell’ostracismo sociale inflitto a chi rifiuta e per paura di disgrazie terribili che altrimenti, così si crede, capiterebbero alla famiglia e all’intero loro lignaggio, e per essere state esposte al contagio.
Tutti in Malawi conoscono queste istituzioni tribali, sanno che cosa succede alla bambine e alle vedove di certe tribù, ma non ci fanno caso. Da anni le associazioni che tentano di tutelare le bambine avvertono che i rapporti di “purificazione” con gli uomini iena favoriscono l’insorgere di malattie trasmesse sessualmente come l’Aids. Eppure solo quando la storia di Eric la Iena ha fatto il giro del mondo il presidente Mutharika è intervenuto, ha ordinato alla polizia e ai capi tradizionali di indagare su tutte le persone coinvolte, ha promesso tolleranza zero e pene severe: “Queste orribili pratiche macchiano l’immagine del Malawi a livello internazionale e ci coprono di vergogna – ha detto – devono finire. Che sia una tradizione poco importa”.
Ma, malgrado le promesse del presidente, con la condanna di Eric Aniva il caso ormai può considerarsi chiuso e nessuno dei mandanti del reato da lui commesso – centinaia di genitori, cognati, suoceri – è stato arrestato e incriminato. Così altre famiglie ricorreranno agli uomini iena, continueranno a “purificare” figlie e vedove solo facendo più attenzione, almeno per qualche tempo, badando a non farlo sapere al di là della cerchia sicura dei famigliari, come succede con le mutilazioni genitali femminili nei paesi in cui sono proibite. Nella distrazione generale altre bambine continueranno a essere mandate, per diventare donne adulte, nei cosiddetti “campi di iniziazione” – altra istituzione tribale tenacemente conservata – dove, oltre a essere “purificate” dall’uomo iena incaricato dai genitori, apprenderanno quali sono i doveri di una moglie e come soddisfare sessualmente i mariti, per essere poi fatte sposare al più presto. Benché nel 2015 l’età minima del matrimonio sia stata portata a 18 anni, il 46% della donne malawine vanno spose prima, anche a 9-10 anni. Per rafforzare la legge occorrerebbe modificare la costituzione che invece ammette il matrimonio dopo i 15 anni purché con il consenso dei genitori e non proibisce i matrimoni di minori, a qualunque età, ma solo raccomanda al governo di scoraggiarli.