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POLEMICA

Il falso S. Francesco

«Era disperato». Giudizio inaccettabile della medievista Chiara Frugoni su Avvenire.

Cultura 10_12_2011
san francesco
La mia lettura dell’intervista alla medievista Chiara Frugoni apparsa su Avvenire il 9 dicembre intitolata L’altra vita di Chiara e Francesco, è proceduta senza intoppi, condividendo da francescana il pensiero della studiosa, finché non mi sono imbattuta in un aggettivo che mi ha, non poco, disturbata. L’aggettivo in questione è disperato. Nel pezzo è attribuito allo stato d’animo di Francesco d’Assisi relativamente agli ultimi anni della sua vita.

Certamente il Signore ha provato Francesco in un crogiuolo terribile: vera la solitudine, vera l’incomprensione, vere le difficoltà, veri i dolori e chissà cos’altro ha potuto sperimentare, di dolore, quest’uomo al quale la Chiesa riconosce il carisma della perfetta conformità a Cristo (dalla liturgia). Vero, anche per Chiara d’Assisi, che «è la grande spiritualità dei due santi a volgere tutto in gioia» (cit. dall’intervista): del resto la santità non consiste forse nella trasfigurazione nella fede, nella speranza e nella carità, di tutto quel vario e imprevedibile materiale costituito dal vivere quotidiano, tribolazioni in primis? La gioia di questi due santi, scaturisce certamente non dall’assenza di prove quanto dal loro sovrabbondare.

Definire però lo stato d’animo di Francesco come disperato ritengo sia profondamente sbagliato; disperato è colui che in preda allo sconforto ha perso ogni speranza e, per la dottrina cattolica è anche un grave peccato contro la speranza. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ne tratta entro il primo comandamento al n. 2091: «Per la disperazione, l'uomo cessa di sperare da Dio la propria salvezza personale, gli aiuti per conseguirla o il perdono dei propri peccati. Si oppone alla bontà di Dio, alla sua giustizia - il Signore, infatti, è fedele alle sue promesse - e alla sua misericordia».

Va da sé che questo è un atteggiamento che non appartiene a Francesco il quale invece conosce bene l’abisso della sofferenza, più di chiunque altro proprio perché così unito a Cristo, ma insieme a questo abisso conosce l’amore che innerva la sofferenza stessa trasformandola in offerta redentrice. Vera sofferenza, vero amore, vera speranza, vera gioia. La contemporaneità misteriosa di dolore e gioia che Francesco provò quando ricevette le Stimmate («gioia e tristezza  gli inondavano il cuore», Fonti Francescane 1225) è paradigma che non stempera, ma anzi rende ancora più grandiosa la tragicità del crogiuolo al quale Dio sottopose il suo servo. A Francesco Dio nulla ha risparmiato, come per il Figlio Suo, anche per l’assisano potremmo dire che volle che imparasse l’obbedienza dalle cose che patì (Eb 5,8). Per comprendere come il dolore più stremo sia stato vissuto da Francesco conformemente a Cristo, conviene allora analizzare brevemente i salmi che sono sulla bocca del Signore e di Santo Francesco al momento della loro morte. Lo farò, in realtà, con le parole prima di Benedetto XVI, poi di Giovanni Paolo II.

Gesù muore gridando "Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato?". È il salmo 22 al centro della catechesi di Benedetto XVI del mercoledì del 14 settembre 2011. Così il Pontefice: «Questo Salmo presenta la figura di un innocente perseguitato e circondato da avversari che ne vogliono la morte; ed egli ricorre a Dio in un lamento doloroso che, nella certezza della fede, si apre misteriosamente alla lode. […]Il suo grido iniziale è un appello rivolto a un Dio che appare lontano, che non risponde e sembra averlo abbandonato […]. Dio tace, e questo silenzio lacera l’animo dell’orante, che incessantemente chiama, ma senza trovare risposta. I giorni e le notti si succedono, in una ricerca instancabile di una parola, di un aiuto che non viene; Dio sembra così distante, così dimentico, così assente. La preghiera chiede ascolto e risposta, sollecita un contatto, cerca una relazione che possa donare conforto e salvezza. Ma se Dio non risponde, il grido di aiuto si perde nel vuoto e la solitudine diventa insostenibile. Eppure, l’orante del nostro Salmo per ben tre volte, nel suo grido, chiama il Signore “mio” Dio, in un estremo atto di fiducia e di fede. Nonostante ogni apparenza, il Salmista non può credere che il legame con il Signore si sia interrotto totalmente; e mentre chiede il perché di un presunto abbandono incomprensibile, afferma che il “suo” Dio non lo può abbandonare.
Come è noto, il grido iniziale del Salmo, «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è riportato dai Vangeli di Matteo e di Marco come il grido lanciato da Gesù morente sulla croce (cfr Mt 27,46; Mc 15,34). Esso esprime tutta la desolazione del Messia, Figlio di Dio, che sta affrontando il dramma della morte, una realtà totalmente contrapposta al Signore della vita. Abbandonato da quasi tutti i suoi, tradito e rinnegato da discepoli, attorniato da chi lo insulta, Gesù è sotto il peso schiacciante di una missione che deve passare per l’umiliazione e l’annichilimento. Perciò grida al Padre, e la sua sofferenza assume le parole dolenti del Salmo. Ma il suo non è un grido disperato, come non lo era quello del Salmista, che nella sua supplica percorre un cammino tormentato sfociando però infine in una prospettiva di lode, nella fiducia della vittoria divina. E poiché nell’uso ebraico citare l’inizio di un Salmo implicava un riferimento all’intero poema, la preghiera straziante di Gesù, pur mantenendo la sua carica di indicibile sofferenza, si apre alla certezza della gloria».
Gesù muore inabissato nella sofferenza e nella speranza filiale.

Vediamo adesso Francesco. I biografi ci attestano che il Poverello morì, quella sera del 3 ottobre 1226, mentre pregava con il salmo 141. San Bonaventura  testimonia che «proruppe nell’esclamazione del Salmo: “Con la mia voce al Signore io grido; con la mia voce il Signore io supplico” e lo recitò fin al versetto finale: “Mi attendono i giusti, per il momento in cui mi darai la ricompensa”» (Fonti Francescane 1242). Giovanni Paolo II, nella catechesi che tenne il mercoledì 12 novembre 2003, nell’introdurre il salmo, ricorda  proprio la morte di San Francesco con queste parole: «il Salmo è una supplica intensa, scandita da una serie di verbi di implorazione rivolti al Signore: “grido aiuto”, “supplico il Signore”, “effondo il mio lamento”, “sfogo la mia angoscia” (vv. 2-3). La parte centrale del Salmo è dominata dalla fiducia in Dio che non è indifferente alla sofferenza del fedele (cfr vv. 4-8). Con questo atteggiamento san Francesco s’avviò verso la morte».

Alla luce dell’esperienza biblica e della dottrina cattolica è evidente dunque, che l’aggettivo disperato, nel senso proprio del termine, non è da applicarsi a San Francesco.