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VITTIME DIMENTICATE

Il dramma delle donne yazide costrette all'aborto

Sono 3.000: violentate e ridotte in schiavitù. Ma il dramma delle yazide non finisce con la prigionia dell'Isis. Tornate a casa il clan le ripudia se incinte di uomini di Daesh. E vengono costrette all'aborto. Ma ci sono anche casi di vero e proprio eroismo di donne che preferiscono essere allontanate piuttosto che uccidere il proprio figlio. Succede in Iraq, nel disinteresse della comunità internazionale per la quale l'aborto è un diritto. 

Vita e bioetica 28_08_2016
Una donna yazida coi suoi figli

Cosa c’è di più sconvolgente e lesivo per il corpo, l’anima e la psiche di una donna della violenza fisica e psicologica perpetrata su di lei? E’ difficile immaginare cosa significhi essere abusate ripetutamente, giorno e notte, da più uomini e accettare che la stessa sorte tocchi alle tue sorelle o amiche soprattutto se sono bambine.

Trattate come schiave, avvilite nella propria intimità più profonda fino a farle desiderare di morire piuttosto che sostenere una pena che pare insopportabile. E’il calvario che migliaia di irachene appartenenti alla minoranza religiosa yazida (secondo Human rights watch sarebbero 3 mila di cui 1.500 liberate) subiscono da quando i membri dell’Isis hanno invaso due anni fa il loro paese, rapendole e riducendole in schiavitù. Ma c’è di peggio se si pensa che alcune di quelle fuggite dagli aguzzini, anziché essere accolte, sono state stigmatizzate dalla propria comunità di origine.

L’emittente Voice of America (Voa) ha recentemente descritto quello che avviene all’interno della minoranza yazida quando una sua donna rapita e violentata torna dai parenti. Secondo le norme della comunità religiosa i rapporti sessuali con persone di altre fedi ed etnie vanno condannati persino nel caso in cui l’atto non sia consenziente. E anche se la tragedia, di colossale portata, ha spinto le autorità religiose a fare un’eccezione, invitando alla reintegrazione delle ragazze fuggite dagli islamisti, resta il divieto ad avere prole. Nel settembre 2014, infatti, il leader spirituale degli yazidi, Khurto Hajji Ismail, ha ammesso l’eccezione parlando di una “situazione fuori controllo”, ma aggiungendo che se anche “le vittime sono nostre figlie e sorelle resta inaccettabile per la nostra religione permettere la nascita di qualsiasi bambino i cui genitori non siano yazidi”.

In questo caso, dunque, l’unica soluzione per quante tornano in comunità incinte è l’aborto, pena l’allontamento per coloro che si rifiutano di praticarlo, il che porterebbe a pensare che molte yazide in questa situazione scelgano per l’omicidio. Anche perché, sebbene la legge irachena vieti l’aborto del nascituro, lo Stato ha sempre tollerato la pratica all'interno della minoranza, come ha sottolineato la parlamentare yazida Vian Dakhil intervistata da Voa.

Eppure i dati fanno pensare che quante scelgono per la vita, accettando piuttosto la croce dell'isolamento persino dopo un patimento al limite del sostenibile, siano parecchie: Nofel Hamadi Akub, governatore della provincia di Ninive controllata dall’Isis, ha dichiarato che il numero dei bambini nati in quell’area da “genitori sconosciuti”, come conseguenza della “jihad sessuale”, sono circa 3 mila.

L’emittente americana ne ha parlato come di un problema da risolvere, lasciando intendere che la soluzione migliore sarebbe quella dell’aborto legale. Eppure un’altra parlamentare irachena, Reza Dler, ha raccontata la storia di una delle yazide che hanno scelto per la vita: “Era incinta di 8 mesi quando è scappata dall’Isis, voleva tenere suo figlio ma il marito l’ha minacciata di divorziare se avesse avuto il bambino. Alla fine la coppia si è separata. La donna ora vive in un campo profughi con il figlio di 5 mesi”.

Viene spontaneo chiedersi che cosa permetta a una donna al limite della resistenza fisica e mentale, che ha assistito ad atrocità anche peggiori di quanti sono passati dai campi di concentramento nazisti, e che magari come tante altre rapite dall'Isis ha pensato al suicidio, di accettare di subire anche il rifiuto dei propri parenti per proteggere la vita del figlio del loro aggressore. Addirittura alcune hanno confessato di preferire la schiavitù “dell’Isis se tornare a casa significa perdere il proprio bambino”, ha continuato Dler, ricordando che ci sono pure yazide che hanno dato i loro piccoli in adozione a sposi curdi.

Come a dire che non c’è tragedia peggiore di quella usata contro un figlio, nemmeno la violenza fisica e psicologica ripetuta per mesi e nemmeno l'esclusione sociale. E come a dire che una nuova vita, pur scaturita da una violenza brutale, è capace di infrangere convinzioni religiose radicate e di restituire una forza di autoconservazione misteriosa e forse difficile da comprendere per chi non è madre. 

Resta dunque da domandarsi, mentre ci stracciamo le vesti per la bestialità dei jihadisti, quanto sia sottovalutata la potenza della violenza psicologica del nichilismo occidentale che invece riesce a convincere migliaia di donne, ogni giorno in fila davanti agli ambulatori dei nostri ospedali all’avanguardia, ad eliminare in pochi minuti la carne della loro carne. Annientando, spesso come se nulla fosse, una potenza vitale che sa essere più forte della furia dei tagliateste. Così, silenzioso, educato e subdolo il relativismo sa mietere più vittime della jihad.