Il dovere e la responsabilità di proteggere
C'è una responsabilità di proteggere i cristiani perseguitati dall'Isis? Monsignor Tomasi lo ribadisce: porgere l'altra guancia "non esclude il fatto che ci sia una legittima difesa". E intanto l'arcivescovo di Karachi richiama il governo del Pakistan al "dovere di proteggere i cristiani".
“‘Se uno ti percuote la guancia destra porgigli anche la sinistra’ è una maniera eroica di rispondere all'aggressività, ma questo non esclude il fatto che ci sia una legittima difesa. L'uso della forza viene accettato come una strada possibile, come ultimo mezzo per proteggere soprattutto da situazioni di genocidio e di violazione sistematica dei diritti umani fondamentali. Certo, non piace ad alcuni il semplice accenno a questa possibilità ma per fare qualcosa bisogna prendere decisioni operative e queste disturbano”.
Monsignor Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede all’Onu (a Ginevra), non usa mezzi termini. A pochi giorni dalla presentazione di una dichiarazione in difesa dei diritti dei cristiani, intervistato dalla trasmissione Virus (condotta da Nicola Porro, su Rai2) ha ribadito il diritto-dovere di intervenire, anche militarmente, per salvare i cristiani perseguitati dall’Isis. “Davanti a questa situazione difficile, specialmente davanti al tentativo di chi controlla il territorio di creare un genocidio, di eliminare delle categorie di persone perché sono di una credenza o di una cultura diversa, lì scatta una responsabilità della comunità internazionale di cercare di dare una risposta, di aiutare e proteggere le persone innocenti che vengono attaccate”.
Del dovere dello Stato di proteggere i suoi cittadini cristiani parlano anche i vescovi del Pakistan, dopo l’ultimo sanguinoso attentato a Lahore (15 morti in due chiese). L’arcivescovo di Karachi, mons. Joseph Coutts, ha accusato il governo di aver mancato al suo dovere fondamentale: “Siamo stanchi di dover condannare queste atrocità commesse impunemente, a discrezione dei terroristi”. Il governo non ha neppure implementato un ordine della Corte Suprema sulla maggior protezione da riservare alla minoranza cristiana e c’è il sospetto che, nel potere esecutivo, la persecuzione dei cristiani sia quantomeno ritenuta un problema trascurabile. L’arcivescovo di Karachi richiama dunque lo Stato al suo “dovere di proteggere i cristiani”, anche se questi costituiscono una piccola minoranza in un paese quasi interamente musulmano.
Vediamo dunque, nello stesso giorno, due prese di posizione che richiamano principi complementari: la responsabilità di proteggere (da parte della comunità internazionale) e il dovere di proteggere (da parte dello Stato). Quest’ultima è possibile quando lo Stato controlla l’ordine pubblico ed è per lo meno disposto al dialogo, come nel caso del Pakistan. La responsabilità a proteggere, come nel caso dei cristiani perseguitati in Siria e Iraq, scatta, invece, quando il governo non ha alcuna intenzione di dialogare (come nel caso dei territori controllati dallo Stato Islamico) o non ne ha la forza, perché non controlla più intere regioni del suo paese (come è per i governi riconosciuti di Damasco e Baghdad). I due principi sono dunque due aspetti dello stesso tema.
“Il riconoscimento dell’unità della famiglia umana e l’attenzione per l’innata dignità di ogni uomo e donna trovano oggi una rinnovata accentuazione nel principio della responsabilità di proteggere – spiegava Papa Benedetto XVI nel suo intervento all’Assemblea Generale dell’Onu del 18 aprile 2008 - Solo di recente questo principio è stato definito, ma era già implicitamente presente alle origini delle Nazioni Unite ed è ora divenuto sempre più caratteristica dell’attività dell’Organizzazione”. Così il Papa emerito spiega come si applichi il principio di sussidiarietà anche nella protezione dei diritti umani: “Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pure dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo. Se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali”. A chi ritiene che questo sia un modo di agire “colonialista”, Benedetto XVI rimpalla l’accusa: “L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, è l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale. Ciò di cui vi è bisogno e una ricerca più profonda di modi di prevenire e controllare i conflitti, esplorando ogni possibile via diplomatica e prestando attenzione ed incoraggiamento anche ai più flebili segni di dialogo o di desiderio di riconciliazione”.
Questa chiave di lettura delle relazioni internazionali ha un’origine molto remota nella tradizione della Chiesa, cinque secoli prima della nascita dell’Onu e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: “Il frate domenicano Francisco de Vitoria, a ragione considerato precursore dell’idea delle Nazioni Unite, aveva descritto tale responsabilità come un aspetto della ragione naturale condivisa da tutte le Nazioni, e come il risultato di un ordine internazionale il cui compito era di regolare i rapporti fra i popoli. Ora, come allora, tale principio deve invocare l’idea della persona quale immagine del Creatore, il desiderio di una assoluta ed essenziale libertà”.
Molto spesso, specie nei dipartimenti universitari di Relazioni Internazionali, una politica a protezione dei diritti umani è considerata “idealista” e viene contrapposta a una politica “realista”, che mira alla sicurezza tramite equilibri di potenza, così come ad una “egualitarista” che punta a redistribuire ricchezze dai paesi ricchi a quelli poveri. Papa Ratzinger riteneva, al contrario, che la persona e i suoi diritti sono sempre al centro: “La promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali, come pure per un aumento della sicurezza”.
Attenzione, però, a non confondere i diritti umani con i corpi legislativi internazionali che si stanno moltiplicando, sia nell’ambito dell’Onu che negli enti sovranazionali su scala continentale (come l’Ue) e che sembra facciano a gara a creare sempre nuovi diritti sociali, sessuali e ambientali. Ratzinger ricordava all’Assemblea Generale che i diritti umani hanno senso se sono saldamente ancorati al diritto naturale. Perché: “L’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo. Al contrario, la Dichiarazione Universale ha rafforzato la convinzione che il rispetto dei diritti umani è radicato principalmente nella giustizia che non cambia, sulla quale si basa anche la forza vincolante delle proclamazioni internazionali”.