Il doppio gioco dei Fratelli musulmani
Gli attentati dei giorni scorsi in Egitto e le successive reazioni confermano il doppio volto dei Fratelli musulmani, la cui condanna del terrorismo dipende dall'identità delle vittime e da chi commette l'azione. L'esempio dell'Egitto dovrebbe insegnare qualcosa anche a noi.
L’attentato al procuratore generale Hisham Barakat e gli attacchi simultanei contro posti di blocco dell'esercito egiziano nel nord del Sinai confermano che l’Egitto è più che mai in prima linea nella lotta contro il terrorismo. Apparentemente si tratta di una guerra su fronti diversi: quello interno rappresentato dagli attacchi da parte della rete dei Fratelli musulmani e dall’esterno da parte dello Stato islamico che approfitta dell’instabilità nella penisola del Sinai, così come del sostegno di alcune tribù della zona, per minare la sicurezza del Paese. Di fatto, si tratta di un fronte comune che vede nel presidente El Sisi un tiranno, un nemico dell’islam da annientare.
Nonostante i Fratelli musulmani, con un comunicato emesso il 7 luglio 2014 dall’International Union of Muslim Scholars presieduta da Yusuf Qaradawi, siano stati i primi a dichiarare l’illegalità dal punto di vista sharaitico del califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, nonostante tutte le organizzazioni islamiche legate al movimento dei Fratelli musulmani in Occidente continuino a condannare gli attentati commessi dagli adepti dello Stato islamico, nessun comunicato è stato emesso per condannare quando accaduto nel Sinai. Qaradawi ha invece condannato l’uccisione di Barakat, ma al contempo ne ha attribuito la responsabilità al regime di El Sisi. Non solo, lo scorso 1 luglio lo shaykh di Al Jazeera – accusato di applicare un doppio binario valutativo nella condanna del terrorismo – ha emesso un comunicato in cui sottolinea di «condannare tutto il terrorismo». Il testo del documento è fondamentale per comprendere la vera posizione dello shaykh che, alla data odierna, presiede ancora il Consiglio Europeo per la Fatwa e la Ricerca a Dublino.
«Condanno il terrorismo dei gruppi estremisti armati come l’Isis e associati che uccide le persone senza rispettare il diritto, infanga la religione del Dio unico, e si cela dietro attentati atroci nei confronti di persone innocenti. Condanno il terrorismo settario che prende di mira chi segue un’altra interpretazione della religione o un’altra scuola, e uccide a proprio piacimento, creando divisione a livello sociale e scatenando reazioni settarie. Condanno il terrorismo del regime del colpo di Stato in Egitto, che si è impossessato delle libertà, ha messo a repentaglio la politica e ha falsificato le sentenze, ha incarcerato giovani, ha ucciso per le strade e torturato nelle prigioni. Condanno il terrorismo del regime siriano che uccide i cittadini […] con armi chimiche per distruggere tutte le città e far sì che la gente le abbandoni. Condanno il terrorismo dell’occupazione sionista che governa sulla terra [santa] e ne uccide la gente. […]».
Nessuna condanna degli attentati di Hamas, nessuna condanna degli attentati in Egitto, nessuna condanna senza se e senza ma nella speranza che il lettore sia seguace della stessa ideologia che distingue tra jihad e resistenza oppure abbia dimenticato altre dichiarazioni e comunicati di Qaradawi che andavano in direzione opposta. Celebri sono le fatwe di Qaradawi, e della maggior parte dei teologi legati al circuito dei Fratelli musulmani, a favore degli attentati suicidi in Israele. Il 7 aprile 2013 Qaradawi, nel corso di una intervista rilasciata ad Al Jazeera, ha dichiarato che «il jihad in Siria è ora un dovere che incombe su tutti i musulmani». D’altronde nulla di nuovo per chi segue l’ideologia dei Fratelli musulmani, poiché il fondatore Hasan al-Banna apriva la sua Lettera del jihad con le seguenti parole: «Allah ha imposto il jihad a ogni musulmano, si tratta di un obbligo chiaro, inevitabile dal quale non v’è scampo». Lo stesso al-Banna nella Lettera ai giovani affermava che «il jihad è la nostra via». È quindi evidente che le condanne di «tutto il terrorismo» di Qaradawi sono relative, perché come sempre dipende dall’identità delle vittime e da chi commette l’azione.
D’altronde, lo stesso Qaradawi non ha mai preso le distanze dalle dichiarazioni di Essam Teleima e Akram Kassab, due dei suoi discepoli più fedeli, nel momento in cui hanno incitato ad applicare il taglione nei confronti dei giudici egiziani e del gran Mufti d’Egitto che hanno condannato a morte Mohamed Morsi e altri membri di spicco della Fratellanza egiziana. Akram Kassab, membro dell’International Union of Muslim Scholars, ha scritto sulla propria pagina Facebook che «liberarsi dei tribunali militari e dei giudici è un obbligo previsto dalla legge, una necessità umana». Essam Teleima, a sua volta, dalla televisione Mekmeleen, legata alla Fratellanza e che trasmette dalla Turchia, ha dichiarato lecita, dal punto di vista sharaitico, l’applicazione del taglione per chiunque abbia condannato a morte un oppresso.
L’Egitto, e gli egiziani, conoscono molto bene la storia di violenza «sharaiticamente corretta» legata alla Fratellanza, sanno perfettamente che – come ha evidenziato l’editorialista Khayr Allah sul quotidiano arabo Asharq Alawsat – «non si può distinguere tra un Fratello musulmano moderato e un Fratello musulmano estremista» perché «tutti i Fratelli musulmani sono fatti della stessa pasta. Da Osama bin Laden a Abu Bakr al-Baghdadi, passando per Abu Mus’ab al-Zarqawi e Aiman al-Zawahiri, tutti sono fatti della stessa pasta dei Fratelli musulmani». Gli egiziani sanno che il problema non risiede in colui che viene definito l’ideologo del jihad, Sayyid Qutb, ma nelle idee del fondatore dei Fratelli musulmani Hasan al-Banna che ha ribadito più volte nei propri scritti l’obbligo del jihad.
Ancora una volta il relativismo dei valori e delle condanne dei Fratelli musulmani è riconfermato, lo stesso relativismo che ha ricordato nei mesi scorsi il francese Mohammed Louizi, fuoriuscito dall’Union des Organisations Islamiques de France (Uoif), sottolineando la falsità di chi condanna gli attentati dell’Isis quando è necessario – per apparire moderato agli occhi delle istituzioni – ma tace quando intellettuali, bloggers musulmani vengono condannati di apostasia in Mauritania, in Sudan o in Arabia Saudita solo perché si tratta di condanne «sharaiticamente corrette».