Il disastro nucleare che non ha ucciso nessuno
La crisi della centrale di Fukushima, seguita alla catastrofe dell’11 marzo, non è il frutto di una tecnologia rischiosa o di un muretto troppo basso. Come si è evitata la strage.
Alle 14.46 dell’11 marzo, al largo delle coste di Miyagi, in Giappone, la terra trema. E’ un terremoto del nono grado della scala Richter, che sarà seguito da altre cinquanta scosse, spesso sopra il sesto grado. E’ il sisma più forte mai registrato in Giappone, il quarto nel mondo. Come da procedura d’emergenza, tutto si ferma. Si fermano i treni superveloci, le metropolitane di Tokyo. I bambini prendono lo zainetto con il kit di sopravvivenza e ordinatamente, senza correre, raggiungono i luoghi di raccolta. Squillano gli smartphone, dotati quasi tutti di un’applicazione che avverte in caso di terremoto imminente, specificando epicentro e magnitudo.
Si interrompe il flusso di energia elettrica agli undici reattori nucleari delle centrali di Fukushima Dai-icihi, Fukushima Dai-ni, Onagawa e Tokai (nel paese le centrali sono diciotto, per un totale di cinquantacinque reattori). Le autorità, agli inizi della politica atomica giapponese negli anni Cinquanta, avevano preferito costruire gli impianti nucleari sulla costa orientale, lontano dai missili delle potenze asiatiche. Questa volta, purtroppo, la scelta non paga: il sisma ha scatenato il maremoto, una serie di onde che da est marciano dritte sui reattori della parte nordorientale dell’isola Honshu, la principale del Giappone. Quando arriva alla città di Aneyoshi, sulla punta nord dell’isola, l’onda dello tsunami è alta quasi quaranta metri. Quando raggiunge la prefettura di Fukushima, trecento chilometri più a sud, non supera i quattordici metri. L’impianto di Fukushima Dai-ichi è su quella costa, duecento chilometri a nord di Tokyo. Ha sei reattori, che, come da procedura di sicurezza, si spengono automaticamente alle prime avvisaglie del sisma. La centrale, esposta al mare sul lato più lungo, è stata progettata per resistere alle onde degli tsunami. Purtroppo però fino a un massimo di cinque metri e settanta centrimetri.
Qui una volta era tutta collina
La collina di Fukushima in origine staccava il mare di almeno trentacinque metri. Un’altezza eccessiva, a giudizio dei tecnici della Tokyo Electric Power Co. (Tepco) che negli anni Sessanta avevano fatto spianare l’altura di venticinque metri buoni. Gli operai avevano poi scavato per altri quattordici metri, per ricavare i vani che avrebbero ospitato i reattori, le turbine e i motori diesel dei generatori d’emergenza. “Abbiamo deciso di costruire l’impianto a livello del terreno dopo aver valutato i costi operativi e di realizzazione di una centrale a quell’altezza, alimentata dalle pompe d’acqua”, scriveva l’ingegner Hiroshi Kaburaki nel 1969, su una rivista di settore dedicata agli impianti nucleari, Hatsuden Suiryoku.
La Tepco stimava che l’impianto non sarebbe mai stato colpito da onde superiori ai 3,1 metri d’altezza. Del resto, scrivono dei sismologi nella richiesta di assenso inviata al governo nel 1966, “negli ultimi settecento anni, Fukushima non ha mai subito alcun danno degno di nota a causa dei terremoti. Per questo si può concludere che l’area sia a bassa sismicità rispetto al resto del paese”. Una centrale a livello del mare, poi, aveva un vantaggio ulteriore: incassando i reattori direttamente nella base rocciosa, si sarebbe diminuito il rischio di danni in caso di terremoto. Con gli anni, il livello di guardia delle società che gestiscono le centrali nucleari si alza. La Tohoku Electric Power Co., che ha costruito un impianto nucleare a Onagawa, poco più a nord lungo la costa di Tohoku, aveva fissato il rischio tsunami a un massimo di 9,1 metri. All’impianto di Fukushima, invece, i ritocchi sono poco più che cosmetici. Nel 2002, sulla base delle indicazioni della Società giapponese di ingegneria civile, la Tepco ha alzato il muro che dà sulla costa, ma giusto di un paio di metri.
Arriva l’onda
La prima onda, a Fukushima, arriva alle 15.27. La cresta è quasi nove metri più alta delle protezioni. L’acqua si scarica sulla centrale, allagando tutti gli ambienti che la Tepco aveva ricavato dalla viva roccia. Si infiltra e ristagna anche nelle sale dei generatori elettrici d’emergenza. I sei reattori della centrale sono di tipo BWR, ad acqua bollente, e hanno bisogno di essere raffreddati in fretta. La circolazione del liquido garantita dalle pompe è indispensabile in questo tipo di reattori, se si vuole evitare che il nocciolo si surriscaldi, superi i cento gradi, determinando un processo che può portare alla fusione nucleare. Il quinto e il sesto reattore riescono a raffreddarsi nell’intervallo tra il terremoto e lo tsunami, perché, al momento dello spegnimento, erano già stati depotenziati – erano in corso da alcuni giorni delle attività di manutenzione. Negli altri quattro reattori, invece, il livello dell’acqua di raffreddamento comincia ad abbassarsi. Ora dopo ora i reattori si surriscaldano. La situazione precipita senza che nessuno sappia porvi rimedio. I notiziari raccontano di un lento e inarrestabile avvicinamento alla catastrofe, che poi sarebbe la fusione nucleare. Le batterie d’emergenza – entrate in funzione dopo il fallimento del sistema diesel – durano soltanto otto ore. La pressione all’interno dei quattro reattori è elevatissima e i tecnici della Tepco iniziano con lo “sfiato controllato”, un modo per abbassare la pressione ed evitare esplosioni nucleari pur immettendo nell’aria lievissime quantità di materiale radioattivo. A sei mesi dall’incidente, in effetti, non c’è prova che si sia mai verificata alcuna esplosione nucleare (diversamente da Chernobyl, dove il materiale radioattivo aveva generato una nuvola in grado di contaminare, attraverso la pioggia, gran parte dell’Europa).
Il problema più urgente, per la Tepco, resta l’alta temperatura delle barre di metallo dei reattori. A quelle temperature, il contatto delle barre con l’acqua porta alla formazione di idrogeno che, trovando una via all’esterno del reattore, incontra l’ossigeno e innesca esplosioni. Le detonazioni saranno almeno quattro, nel primo, nel secondo e nel terzo reattore (che si ritrova, così, con il tetto scoperchiato). I tecnici della Tepco, nel frattempo, ancora non sanno dire quale sia la temperatura esatta all’interno degli involucri di protezione.
La Tepco esita
Il giorno dopo lo tsunami, la Tepco autorizza il raffreddamento della centrale con acqua di mare. La procedura è riconosciuta dal protocollo d’emergenza (le centrali nucleari si costruiscono vicino a una fonte d’acqua che possa funzionare da liquido di raffreddamento). L’acqua marina, però, ha un difetto non trascurabile: il sale renderà i reattori inutilizzabili, una volta passata la crisi. E’ questo il motivo per cui la Tepco prende tempo. Lo dice Akira Omoto, ex dirigente della Tepco e membro della commissione per l’Energia atomica giapponese, in un’intervista al Wall Street Journal: “L’azienda ha esitato, ed è comprensibile: gettare acqua di mare nel serbatoio del carburante nucleare significa renderlo inutilizzabile in futuro”. Per il Wall Street Journal la Tepco non temporeggia soltanto sul raffreddamento dei reattori: l’esercito, scrive il quotidiano americano, è arrivato a Fukushima cinque giorni dopo il sisma. I militari, mai richiesti dalla Tepco, hanno infatti seguito le priorità dell’emergenza, come da manuale. Gli unici ad arrivare subito alla centrale sono i pompieri.
L’emergenza crea tre nuovi nemici per i giapponesi: Iodio-131, Cesio-137, Stronzio-90. Gli ultimi due, presenti in piccole quantità, hanno contaminato il mare e il terreno. Tracce di Iodio-131 vengono invece trovate nell’atmosfera. Sono sintomi di un incidente che la Tepco confermerà soltanto a maggio, dopo un’ispezione dei tecnici dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea): c’è stata una “fusione parziale” delle barre di combustibile nel primo, secondo e terzo reattore della centrale. Nel frattempo viene evacuata la popolazione in un raggio di venti chilometri dall’impianto. La presenza di Iodio, Cesio e Stronzio sul terreno, nell’aria e nell’acqua viene monitorata quotidianamente dal governo. La presenza di Plutonio, invece, è stata sempre smentita da tutti i bollettini.
Più che lo tsunami potè il terremoto
Secondo la relazione ufficiale consegnata dalla Tepco all’Aiea, all’origine della crisi nucleare c’è il maremoto, che ha messo fuori uso i sistemi di raffreddamento della centrale di Fukushima Dai-ichi. Molti specialisti, tuttavia, propendono per un’altra versione dell’incidente, che rovescia l’analisi tecnica ufficiale e aggrava le responsabilità dei progettisti della centrale: alcune strutture dell’impianto avevano già ceduto durante la prima scossa. L’onda dello tsunami, in questa versione dei fatti, non avrebbe fatto altro che aggravare la situazione di una centrale già in ginocchio. Pio d’Emilia, da anni corrispondente dal Giappone per SkyTg24 e uno dei pochi giornalisti italiani ad aver seguito sul campo la crisi nucleare di marzo, dice al Foglio: “Subito dopo il terremoto alcune tubature della centrale si sono crepate, come è stato accertato in seguito”. Che l’impianto fosse già nelle condizioni per creare un incidente nucleare lo si capisce anche da una notizia del 15 maggio, poco più di due mesi dopo il sisma. L’agenzia di stampa Kyodo news, citando fonti anonime della Tepco, scrive che la radioattività rilevata dai tecnici entrati nel primo reattore la notte dopo il sisma era di 300 millisievert all’ora. Un livello molto elevato che dimostra come, da qualche parte, ci fosse già stata una fuga di materiale radioattivo. “Le scosse del sisma potrebbero aver causato danni al contenitore a pressione del reattore o alle tubature”, dice una fonte di Kyodo news. Se così fosse, la proverbiale capacità degli impianti nucleari giapponesi di resistere a tutto, anche ai terremoti più duri, sarebbe rimessa seriamente in discussione.
Il reattore era difettato, ma dal ’74
Mentre le autorità iniziano a ripulire il Giappone dalle macerie, milioni di persone, in tutto il mondo, assistono allo scorrere delle notizie e si chiedono quale sarà l’ennesimo traguardo negativo della crisi di Fukushima Dai-ichi. C’è una persona che lo sa, o almeno ha dei buoni motivi per saperlo. Si chiama Mitsuhiko Tanaka, lavorava alla fonderia della Hitachi Ltd. a Kure, nella prefettura di Hiroshima. E’ lì che, nel 1974, era stata creata la scocca del quarto reattore di Fukushima Dai-ichi. C’erano voluti due anni e mezzo di lavoro (e 250 milioni di dollari) per produrre il pezzo, un cilindro largo sei metri e alto venti. Una volta raffreddato il metallo, però, i tecnici s’erano accorti che le pareti della scocca si erano deformate. I vertici della Hitachi sanno di non poter consegnare un pezzo palesemente fallato, ma capiscono anche che riprendere dal principio un processo così lungo e costoso potrebbe portarli dritti alla bancarotta. Bisogna trovare un modo per riportare il pezzo all’interno dei margini di tolleranza (34 millimetri in altezza e in larghezza). Sarà il compito del giovane ingegnere Mitsuhiko Tanaka, fresco di studi al Tokyo Institute of Technology. Ci lavora per un mese, facendo la spola tra la fonderia e il computer più vicino, nello stabilimento Ibm a venti chilometri da Hiroshima.
Intanto i tecnici coprono il pezzo con un telo enorme e, quando la Tepco manda un ispettore per sapere a che punto è la lavorazione, i manager della Hitachi lo portano a giocare a golf e lo fanno ubriacare. Tanaka riesce a sistemare l’enorme cilindro tramite un sistema di pompe idrauliche, aggiudicandosi un bonus da tre milioni di yen. “Mi sentivo un eroe”, racconta Tanaka, che nel ’77, a 34 anni, lascia la Hitachi e si dà alla divulgazione scientifica.
Nel 1986, poco dopo il disastro di Chernobyl, gli viene proposto di lavorare su alcune riprese fatte da una troupe russa dentro la centrale sovietica. Tanaka sbianca: “Di colpo ho capito che avrei potuto essere stato il padre della Chernobyl giapponese”. Due anni dopo denuncia tutto al ministero del Commercio, ma la Hitachi nega con decisione e il governo le crede, rinunciando ad aprire un’indagine. Ora, quella scocca fallata deve arginare un reattore in surriscaldamento costante, lambito dalle fiamme divampate dopo l’esplosione al terzo reattore, a pochi metri di distanza.
No nuke no party
La pratica dell’ubriacatura preventiva è ripresa, a volte, anche all’interno delle centrali. “A controllare gli impianti in Giappone sono i tecnici del ministero dell’Industria – dice al Foglio D’Emilia, che ne ha scritto nel suo ‘Tsunami nucleare’ (manifestolibri, 2011) – gli stessi che andavano a mangiare e bere a Fukushima ‘dimenticandosi’ poi di controllare reattori vecchi di trenta, quarant’anni”.
Subordinare l’Agenzia per il controllo sul nucleare al ministero dell’Industria non ha giovato all’imparzialità. Per questo, nel suo discorso al vertice sul nucleare dell’Onu, il neo premier giapponese Yoshihiko Noda ha annunciato la creazione di un’autorità indipendente: la Nuclear and Industrial Safety Agency (Nisa) che ad aprile si staccherà dal ministero dell’Economia, del commercio e dell’industria e diventerà la Nuclear Safety and Security Agency (Nssa). Almeno nel nome, l’esecutivo di Tokyo potrà dire di aver sostituito l’industria con la sicurezza. Nello stesso discorso Noda ha chiaramente escluso la possibilità di fare a meno, un giorno, dell’energia nucleare. Ha parlato di “un duro colpo” per tutto il Giappone, che dal 1957 si sforza di essere all’avanguardia nella produzione di energia nucleare per uso civile. Ha ammesso le colpe del governo e della Tepco, parlando sempre al plurale, e annunciato un rapporto completo sui motivi del disastro nel 2012. Ha assicurato un giro di vite sui controlli nelle centrali ancora in attività, specificando che “il Giappone è determinato ad aumentare la sicurezza nella produzione di energia nucleare ai massimi livelli”. La strategia del precario governo giapponese sembra essere quindi quella di contentare il movimento antinuclearista, favorendo lo sviluppo delle energie alternative, mentre si procede a costruire più centrali nucleari di nuova generazione. “Anche una belva feroce, se opportunamente ammansita, può diventare un tranquillo animale domestico!”, recitava una pubblicità sullo Yomiuri Shimbun negli anni Cinquanta. L’obiettivo dei giapponesi resta domare la belva.
Per Pio d’Emilia però anche Noda (sbeffeggiato con il nomignolo “anguilla fangosa”) ha i giorni contati: “L’unico vero provvedimento che ha cambiato la storia del Giappone l’ha firmato l’ex premier Naoto Kan, poco prima delle dimissioni”: si tratta del pacchetto verde che rompe il monopolio su produzione e distribuzione dell’energia, permettendo a ogni privato di prodursi l’elettricità anche dal ruscello che scorre nel suo giardino.
Il dibattito sul nucleare è stato influenzato anche dal caso della città di Kaminoseki, nel sud del Giappone, dove il tema è di casa dal 1982, quando la Chugoku Electric Power Co. aveva annunciato l’intenzione di costruire un impianto fuori città. Da allora l’argomento ha monopolizzato gli appuntamenti elettorali locali, vinti nove volte su nove dai nuclearisti. L’ultima è stata il 25 settembre scorso, quando il candidato Sadao Yamato, favorevole a un passaggio alle fonti di energia rinnovabili, sfidava il sindaco uscente, lo smaccatamente nuclearista Shigemi Kashiwabara. Per Kashiwabara bisogna assolutamente finire quell’impianto a cui la Chugoku Electric, dopo anni di discussioni, aveva iniziato a lavorare proprio pochi giorni prima del sisma dell’11 marzo. La centrale porta soldi, lavoro ed energia: “Che c’è di male a volere una vita decente?”, dice Kashiwabara, che ha vinto con il doppio dei voti del suo sfidante. “E’ il sindaco a firmare l’ultimo decreto per attivare una centrale”, dice D’Emilia, “e per Kashiwabara non sarà comunque facile”. Il movimento antinuclearista giapponese, infatti, sta raccogliendo consensi dopo anni di sparuta minoranza: “La manifestazione del 19 settembre scorso – alla quale hanno partecipato quasi un milione di persone per le vie di Tokyo – ne è dimostrazione”, dice D’Emilia.
Fukushima non è figlia unica
Alla notizia di un incidente in una centrale nucleare, i giapponesi non hanno avuto dubbi: “Ah, certo, a Hamaoka”. E’ il malfamato impianto della città di Omaezaki, 180 chilometri a sud della capitale, nota, fino agli anni Settanta, per la pesca e il tè verde. I giapponesi sanno che l’impianto ha già subito due incidenti minori (rottura di una condotta e perdite al primo reattore, chiuso insieme al secondo, nel gennaio 2009). Sanno anche, però, che la centrale si trova esattamente all’incrocio tra due zolle tettoniche, quella euroasiatica e quella filippina. Il governo da anni avverte delle probabilità (l’87 per cento) che entro trent’anni la zona venga colpita da un terremoto superiore all’ottavo grado (il “Grande Tokai” che tutti i giapponesi imparano ad aspettare, fin dai primi anni di scuola). Questo non ha impedito alla Chubu Electric di costruire quattro centrali nucleari nella zona, ma nessuna è esattamente sulla faglia. Lo è, invece, quella di Hamaoka.
Dopo l’incidente a Fukushima, Tokyo si ritrova stretta tra due impianti a rischio, uno a 200 chilometri a nord, l’altro 180 a sud. L’ex premier Naoto Kan decide di non rischiare e il 7 maggio chiede, “come misura eccezionale”, la chiusura dell’impianto di Hamaoka fino a data da destinarsi. Una misura preventiva che non era mai stata presa prima. La Chubu Electric resiste per una settimana alle richiesta, poi, all’alba di venerdì 13 maggio, avvia la procedura di spegnimento dei due reattori rimasti operativi, il quarto e il quinto (secondo Pio d’Emilia le pressioni del governo non sono estranee alla considerazione che, in zona, “ci sono quattro basi militari americane”).
Il lunedì successivo si scopre che le preoccupazioni di Kan non erano infondate: per una falla in una condotta, migliaia di litri d’acqua dell’oceano si sono infiltrati in un condensatore, per poi raggiungere il quinto reattore. Si parla di quattrocento tonnellate d’acqua salata, un agente corrosivo lasciato circolare nelle condotte metalliche chissà da quanto tempo. Nel giro di un mese si scopre che c’erano 43 tubature bucate, più due deformate, che non hanno retto la procedura di raffreddamento. Per quanto la Chubu Electric minimizzi (“nel condensatore ci sono ventunmila tubi da tre centimetri di diametro”) il dato di fatto non cambia: almeno cinque tonnellate d’acqua marina sono all’interno del quinto reattore.
In quei giorni si scopre che c’è un ulteriore impianto danneggiato, quello di Tokai Dai-ni, cento chilometri a nord di Tokyo. Ci sono crepe in alcuni componenti vicini alla testa del reattore, difetti in alcune turbine e carenze nell’impianto di raffreddamento. La Japan Atomic Power Company, proprietaria della centrale, assicura che è tutta colpa del sisma dell’11 marzo, ma le apparecchiature di Tokai Dai-ni non sono proprio impeccabili. A scoprirlo sono i tecnici mandati sul posto dal governo: l’impianto elettrico è ampiamente al di sotto degli standard antisismici previsti.
Un decimo di Chernobyl
Il signor Hidetoshi Togasawa è un fisico e dirige la redazione Scienza e ambiente del quotidiano giapponese Mainichi Shimbun. Negli anni Ottanta ha seguito per la stampa giapponese il disastro di Chernobyl, e ora Fukushima. Togasawa, a colloquio con il Foglio, non usa mezze misure: “Lo tsunami era una calamità che non si poteva evitare, ma l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima è chiaramente un disastro causato dall’uomo”. Secondo Togasawa, la causa diretta dell’incidente è stata “l’impossibilità di raffreddare il combustibile nucleare per via della totale mancanza di energia elettrica”. Un collasso dovuto “alla perdita di corrente dovuta alla scossa sismica” a cui però si è aggiunta “l’impossibilità, dovuta allo tsunami, di utilizzare i tredici generatori d’emergenza”. I generatori di corrente si trovavano alla stessa altezza della centrale, a soli dieci metri sopra il livello del mare: “Se fossero stati posti su un terreno più alto probabilmente sarebbe stato possibile utilizzarli”. Anche Togasawa sa che “negli ultimi due-tre anni alcuni tecnici avevano previsto la possibilità di uno tsunami di intensità superiore alle supposizioni dei progetti. I tecnici avevano avvertito anche della possibilità di interruzione dell’energia elettrica. La Tepco, però, aveva liquidato le supposizioni con un ‘non potrà mai accadere’ e non aveva preso alcun provvedimento”.
“Non c’è stato ancora un morto per l’incidente di Fukushima”, prosegue il giornalista giapponese, aggiungendo che l’evacuazione in un raggio di venti chilometri è stata una misura preventiva ragionevole. Si calcola che non dovrebbero esserci effetti sulla popolazione all’infuori dell’area: “La Nisa ha registrato che l’emissione di sostanze radioattive dalla centrale di Fukushima è di un decimo rispetto a quella di Chernobyl”. Attualmente, infatti, il livello di radiazioni oltre i venti chilometri dai reattori, a parte una zona, non supera i 20 millisievert in un anno di esposizione. Con una simile esposizione alle radiazioni “non si verificano gli ‘effetti definitivi’ come il decesso, la sterilità, la perdita di capelli eccetera. In futuro, c’è invece la possibilità che si verifichino i cosiddetti ‘effetti probabili’ come l’aumento di decessi per cancro”. La relazione tra esposizione alle radiazioni e l’aumento dell’incidenza di tumori, però, non è ancora stata chiarita nemmeno dalla letteratura medica: “Per molti specialisti non è chiaro se con un’esposizione alle radiazioni al di sotto dei 100 millisievert i casi di tumore aumentino o meno”. Essendo 20 millisievert una quantità di gran lunga inferiore, non si può statisticamente affermare che aumenteranno in maniera diversa rispetto ad altrove.
Togasawa cita i rilevamenti sulle prime persone all’interno del raggio di venti chilometri (quelli che la stampa internazionale aveva indicato da subito come i “contaminati”): “Sono stati effettuati controlli sulla tiroide ai bambini e misurato il livello di radioattività sui cittadini (il whole body counting, ndr). Le ecografie alla tiroide sulle prime 1.050 persone hanno rilevato un livello di iodio radioattivo molto più basso di quello in cui si teme il tumore. Anche con il ‘whole body counting’ è risultato che l’esposizione al cesio radioattivo è al di sotto di un millisievert. Dunque si pensa che gli effetti sulla salute siano ridotti. Ci sono però scienziati che considerano, tra gli effetti dell’incidente, anche i danni alla salute arrecati da ansia e stress, che di certo non possono essere ignorati”. Togasawa dice al Foglio che quelle ancora radioattive sono alcune aree isolate e delimitate, ma che il sistema di decontaminazione sta funzionando: “In quasi tutte le altre zone della prefettura di Fukushima il livello di radiazioni è sufficientemente basso per abitarvici”. In sostanza con il “cold shutdown” (il totale raffreddamento dei reattori che dovrebbe essere raggiunto entro il marzo prossimo) “molte delle persone evacuate potrebbero tornare alle proprie case”. Per alcuni degli sfollati questa procedura è iniziata già da qualche giorno. Anche il governo americano, che fino a ieri sconsigliava l’ingresso dei concittadini nel raggio di 80 chilometri da Fukushima, ha ristretto l’area a 20 chilometri. In fondo la situazione nella centrale è quasi del tutto sotto controllo. Il raffreddamento dei quattro reattori sta avvenendo attraverso un getto d’acqua fredda nel nocciolo che poi fuoriesce in forma liquida o vaporosa attraverso delle perdite. L’acqua che passa attraverso i reattori viene decontaminata e rigettata in mare. Le coperture dei reattori scoperchiati sono state ultimate (non è stato costruito nessun precario sarcofago in cemento armato come a Chernobyl). In nessun alimento vengono rilevate tracce di iodio, mentre il cesio si trova ancora nei prodotti ittici e nella carne di manzo che viene dalla prefettura di Fukushima. Alcune specie di frutta e verdura vengono tenute sotto controllo, come funghi, castagne, kaki e mele.
Da Il Foglio del 13 ottobre 2011