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GIORNALISMO

Il diritto all'oblìo, quando il passato non passa

Diritto all'informazione e diritto alla privacy: dal difficile equilibrio di questi due fattori nasce anche il diritto ad essere dimenticati per vicende che non siano più attuali. Intervista a Ruben Razzante, docente di Diritto dell'informazione.

Cultura 17_12_2013
Ruben Razzante

«Diritto all’oblio», diritto a essere dimenticati. E’ un concetto molto poco conosciuto, ma di cui sentiremo parlare sempre più spesso. Intanto, un cronista di giudiziaria de Il Giornale, Luca Fazzo, è stato condannato in primo grado a sette mesi di detenzione senza condizionale proprio per aver violato il diritto all’oblìo di una persona definita «un accanito cocainomane»: lo aveva sì confessato la stessa persona ai giudici ma due anni prima che l’articolo fosse scritto e nel frattempo aveva saldato il debito con la legge e cambiato vita.

Si tratta dunque di una questione molto delicata che chiama in causa la dignità delle persone. Ne parliamo con il professore Ruben Razzante, docente di Diritto dell’Informazione all’Università Cattolica del Sacro Cuore, e autore del “Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione” (Cedam) appena aggiornato per la sesta edizione. Razzante è anche tra i relatori del convegno dedicato proprio al «diritto all’oblio nell’era del web» che si svolgerà giovedì 19 dicembre a Milano, all’Università Cattolica, dalle 10 alle 13.

Professor Razzante, intanto chiariamo cosa si intende per diritto all’oblìo.
È il diritto ad essere dimenticati per vicende che non siano più attuali, cioè che non abbiano subito aggiornamenti negli ultimi anni e che quindi non destano più l’interesse dell’opinione pubblica. Accanirsi su particolari che riguardano soltanto il gossip o la curiosità morbosa, approfittando di notizie vecchie per screditare persone che si sono abbondantemente rifatte la reputazione, è sicuramente prova di pessimo giornalismo.

E’ davvero possibile tracciare un confine netto tra notizie attuali e non?
Il criterio è l’essenzialità. Mi spiego: se le vicende passate hanno ancora un impatto sulla realtà attuale, è giusto pubblicare. Se il personaggio deve ricoprire un incarico pubblico e quindi il cittadino ha il diritto di sapere qualsiasi cosa di lui o di lei, è giusto pubblicare. Se invece si tratta soltanto di richiamare la memoria per riempire pagine di giornali con particolari di vita privata che sono abbondantemente superati dalla vita concreta che questa persona ha fatto negli ultimi anni allora certamente non va bene. E’ questa l’essenzialità: pubblicare ciò che sia veramente essenziale alla completezza della notizia ed essenziale all’interesse pubblico del cittadino di sapere e quindi di essere informato.

 

Il discorso vale anche nel caso di una condanna detentiva ricevuta?
Una condanna può essere richiamata ma dobbiamo anche ragionare in una logica rieducativa. La Costituzione parla del carcere in termini di funzione rieducativa, non retributiva. La gogna mediatica va invece nella direzione opposta: uno rimane perpetuamente nei motori di ricerca, nella rete, quindi questa sua vicenda che magari gli è servita per cambiare, per rifarsi una vita, per redimersi, per riabilitarsi, viene sempre richiamata alla memoria. Così tutte le persone che entreranno in contatto con lui e ancora non lo conoscono e andranno su internet per avere notizie di lui, troveranno sempre questa notizia. Non tutti sono in grado di discernere e non farsi condizionare da questa notizia.

La Costituzione prevede che la pena debba avere una funzione rieducativa, e quindi tra queste c’è anche il diritto a essere dimenticati per fatti non più attuali. Consideri il caso recente di un imprenditore calabrese: aveva chiesto un fido a una banca per avviare una nuova iniziativa imprenditoriale; la banca non lo conosceva, è andata su Google, ha trovato una condanna di sette anni fa per evasione fiscale, condanna che però lui aveva pagato con una sanzione pecuniaria. Eppure su Google rimaneva indicizzata come prima notizia; questo l’ha penalizzato perché la banca non gli ha ancora dato il fido.

La stessa cosa quando uno va in pensione, quindi cambia vita, è fuori dal discorso affari, lavoro, carriera: perché su Google devono rimanere perpetuamente informazioni su di lui se è uscito di scena (quanto guadagnava, le proprietà). A un certo punto dovrebbero scomparire. Invece anche di personaggi che non hanno più niente da dire rimane questo archivio perpetuo. La soluzione è lasciare che le redazioni dei giornali continuino ad aggiornare le notizie, a garantire ai cittadini un aggiornamento puntuale. Soprattutto se un giornalista avesse bisogno di fare una ricostruzione storica, di un caso di un’associazione, di una persone, di un politico, sicuramente avrebbe il diritto di andare negli archivi online dei giornali e trovare tutto. Però un conto sono i siti dei giornali dove uno va in modo specifico, mirato ai fini di ricostruzione storica, altro conto sono i motori di ricerca dove vanno tutti, quindi non è giusto lasciare illimitatamente queste notizie.

Ma dal punto di vista tecnico è possibile cancellare le informazioni in rete?.
Ci sono due possibilità: prevedere un  sistema che alla scadenza (dieci anni) ogni informazione venga eliminata dal sistema. E’ questo però un sistema che non può funzionare, poi i dieci anni da quando decorrono? Dalla sentenza definitiva, da quando è uscita….

Seconda soluzione, i motori di ricerca dovrebbero essere tempestivi nell’intervenire su segnalazione degli utenti per rimuovere queste informazioni o per indicizzarle in modo diverso. La grande sfida è “educare i motori di ricerca” ad una maggiore sensibilità rispetto al tema della tutela dei diritti senza che invece lascino spazio alla logica del business e della pubblicità.

Si tratta di una materia complicata…..
Sì, perché bisogna contemperare il diritto all’informazione, il diritto alla trasparenza, il diritto a mantenere le informazioni accessibili a tutti, con la riservatezza, la privacy, la tutela delle persone. E’ delicata anche nel senso che i motori di ricerca e i provider hanno una natura transnazionale e quindi diventa difficile uniformare e legiferare e regolamentare questa materia su base nazionale con leggi nazionali.

All’estero come viene affrontata la questione?
Finora non c’è stato molto perché il problema ha preso alla sprovvista, ha preso di sorpresa molti, quindi in generale il legislatori nazionali sono tutti spiazzati. Ci sono alcune sentenze in Spagna, un motore di ricerca è stato costretto a rimuovere notizie e a riconoscere il diritto all’oblio ma su un caso specifico. Si naviga a vista, c’è solo la giurisprudenza che colma questo vuoto normativo. Ora  si sta arrivando alla riforma della direttiva privacy, si sta procedendo alla emanazione di un regolamento europeo che dovrebbe disciplinare la privacy nelle comunicazioni elettroniche in modo innovativo e prevedere anche questo riconoscimento del diritto all’oblio.

Intanto però un altro giornalista sta rischiando il carcere.
Intanto bisogna dire con chiarezza che la pena del carcere per i giornalisti dovrebbe essere cancellata. Non vuol dire rendere impuniti i giornalisti. Quando sbagliano è giusto che paghino anche con sanzioni pesanti, soprattutto quando non fanno le rettifiche in modo tempestivo. Il carcere è però un’esagerazione, il caso Fazzo è una esagerazione. E’ sbagliata la pena detentiva, è una pena odiosa, ormai da superare e invece bisogna fare in modo che i giornalisti siano costretti a dimostrare la buona fede quando diffamano qualcuno. Se si dimostra che un giornalista in buona fede ha preso una cantonata e quindi dalla rettifica si capisce che è pentito, ha chiesto scusa, non andrebbe sanzionato. Se invece il giornalista dimostra malafede anche nella pubblicazione della smentita perché la ritarda, perché la mette in una posizione grafica marginale, anzi rincara la dose, allora a quel punto bisogna prevedere delle multe salate anche per gli editori che di fatto poi dettano la linea editoriale, veri registi di alcune diffamazioni.