Il Covid in Africa, l'apocalisse che non c'è stata
All'inizio della pandemia, l'Onu prevedeva una vera apocalisse in Africa, chiedendo aiuti straordinari per tutti i suoi Paesi. Dopo otto mesi, possiamo ben dire che il continente nero è il meno colpito al mondo dal virus. L'Onu si lancia allora in lodi sperticate dei governi locali, per la loro efficacia nella lotta contro l'epidemia. Ma anche questo è falso: non hanno fatto o potuto fare nulla.
Il 23 ottobre nel mondo i casi di COVID-19 hanno superato di poco i 41,3 milioni. Con 1.276.311 casi su una popolazione di 1,3 miliardi l’Africa si conferma il continente meno aggredito dal virus. L’Onu invece all’inizio della pandemia aveva dichiarato che l’Africa era il continente più esposto, che avrebbe subito danni immensi. Il Segretario generale Antonio Guterrez a fine marzo aveva spiegato che c’era bisogno di una mobilitazione gigantesca, che aiutare l’Africa doveva avere priorità assoluta, senza di che ci sarebbero stati “milioni e milioni di persone infette” e “necessariamente milioni di morti”. Ad aprile l’Oms ipotizzava entro 3-6 mesi da 20 a 122 milioni di casi e almeno 300.000 morti. Gli stati africani si sono affrettati a chiedere aiuti finanziari, posticipazioni nel pagamento dei debiti e addirittura la loro cancellazione. Le Nazioni Unite, tramite il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale, l’Unione Europea e i paesi occidentali hanno risposto generosamente.
A quasi un anno dall’inizio della pandemia, le previsioni apocalittiche risultano del tutto smentite e, dopo un periodo di crescita costante, da due mesi il numero di casi e di decessi ha iniziato a diminuire. Uno dopo l’altro i governi allentano o revocano le misure adottate, comunque mai estreme come i lockdown di certi paesi tra cui l’Italia. Quindi Onu e Oms si domandano come mai l’Africa, almeno finora, abbia resistito al virus, contro ogni aspettativa. Per il Segretario Generale Antonio Guterres fondamentale è stata la pronta ed efficace reazione dei governi africani. Pur avvertendo che in Africa la pandemia era agli inizi e che la situazione avrebbe potuto degenerare, il 20 maggio Guterres lodava la “tempestiva” risposta africana: “la maggior parte dei paesi africani si sono affrettati a intensificare il coordinamento regionale, mettere in campo personale sanitario, imporre quarantene, lockdown e la chiusura delle frontiere. L’esperienza dell’Aids e di Ebola li ha aiutati a contenere le dicerie e a vincere la sfiducia della gente nei confronti del governo, delle forze di sicurezza e degli operatori sanitari”. Intervistato dall’emittente francese RFL, Guterres è arrivato a dire che il mondo sviluppato ha molto da imparare dalla risposta africana: “la maggior parte dei governi e degli organismi africani hanno adottato coraggiose misure di prevenzione che dovrebbero essere prese a esempio da alcuni paesi sviluppati che non l’hanno fatto”.
Più che “coraggiose” – ci sarebbe da obiettare – in certi casi le misure di prevenzione adottate si possono definire “estreme”: in Kenya, ad esempio, dove la polizia è arrivata a sparare ad altezza uomo contro chi violava il coprifuoco, uccidendo almeno 15 persone, o in Nigeria, dove le autorità di Port Harcourt hanno fatto demolire due alberghi e ne hanno arrestato i proprietari che non avevano rispettato le misure di isolamento.
Quanto al personale sanitario tempestivamente messo in campo dai governi, sarà anche vero, ma la Liberia dispone di quattro medici ogni 100mila abitanti, la Repubblica Centrafricana ne ha sette, l’Angola, benchè sia il secondo produttore africano di petrolio, 21, Nigeria e Sudafrica, le prime due economie continentali, rispettivamente 45 e 91… (l’Italia ne ha 400, la Germania 430, la Svezia 500). La verità è che i sistemi sanitari pubblici africani sono inadeguati anche in tempi normali, figurarsi in caso di emergenza. Sono frequenti gli scioperi di medici e infermieri che protestano per le condizioni in cui sono costretti a lavorare, per i bassi stipendi, per non essere stati pagati.
Il Segretario generale dell’Onu tutto questo lo sa perché Oms, organizzazioni non governative, istituti religiosi compensano per quanto possibile le carenze governative con presidi sanitari in tutto il continente, programmi di prevenzione, piani di intervento quando una situazione va fuori controllo: dal 2019 a oggi nella sola Repubblica democratica del Congo, sono stati necessari interventi internazionali per contrastare, oltre al COVID-19, epidemie di malaria, colera, morbillo e due di Ebola.
Al di là delle parole di Guterres – l’Onu è sempre incline a lusingare i governi africani complimentandosi per le loro performance – a preoccupare pensando all’Africa, al punto da prevedere scenari catastrofici, erano soprattutto due fattori, uno dei quali era proprio la situazione sanitaria disperatamente inadeguata. L’altro era la difficoltà, nonostante le buone intenzioni, di adottare misure di contenimento efficaci, intendendo per tali isolamento, distanziamento umano e dispositivi di protezione individuale: mascherine, guanti e prodotti igienizzanti.
In tutto il continente ci sono vasti territori fuori controllo e frontiere incustodite, permeabili. Dove invece i governi sono in grado di imporre lockdown e coprifuoco, tuttavia centinaia di milioni di persone non hanno modo di osservare le regole di isolamento e distanziamento richieste: non nei centri urbani dove gran parte degli abitanti vivono ammassati in quartieri costruiti senza un piano urbanistico, saturi di abitazioni spesso malsane e sovraffollate; e neanche nei villaggi e negli insediamenti rurali dove le abitazioni tradizionali, se non altro distanziate, sono però altrettanto malsane e sovraffollate. Quanto ai dispositivi di protezione individuale, alla difficoltà di procurarsi almeno le mascherine si aggiunge quella di saperle usare nel modo appropriato e, nel caso, di riuscirci. Per decine di milioni di africani persino la regola elementare di lavare spesso le mani è inattuabile per scarsità di acqua e sapone.
Eppure su 1.276.311 morti di coronavirus accertati quelli africani sono 28.806: anche volendo mettere in conto che non tutti i decessi vengano registrati (ma questo vale anche per altri continenti), sono meno che in India, che ha 117.306 morti su una popolazione di 1,3 miliardi come quella africana, persino meno che in Italia, dove il 23 ottobre i morti per COVID-19 denunciati sono 36.832. Forse, allora, l’Africa, più che “servire a esempio per certi paesi sviluppati”, potrebbe indurre a ripensare le strategie su cui alcuni continuano a insistere, incentrate su lockdown e distanziamento.
Fattore non secondario, bisognerebbe riflettere anche sugli effetti economici. In Italia si prevede nel 2020 una contrazione del Pil: almeno del 9% per la Banca d’Italia, dell’11,6% per Goldman Sachs. Secondo la Banca Mondiale l’Africa subirà una diminuzione del Pil tra il 2,1 e il 5,1% a “causa dell’impatto che le misure di lockdown hanno avuto sulle attività produttive e, soprattutto, a causa dello stop degli investimenti stranieri e della riduzione dei flussi di capitale provenienti dall’estero”.