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EDITORIALE

Il conflitto israelo-palestinese non è più una priorità

La visita di Netanyahu ha detto ben poco delle intenzioni in Medio Oriente di Trump, che ha almeno avuto il merito di svelare il vuoto politico che sta dietro la formula "due popoli, due Stati". Ma per Israele oggi conta più l'alleanza con sauditi e monarchie del Golfo contro l'Iran piuttosto che la soluzione del conflitto con i palestinesi.

Editoriali 17_02_2017
Trump e Netanyahu

Due Stati o un solo Stato per israeliani e palestinesi? Nel diluvio di commenti seguiti ieri alla conferenza stampa di Trump e Netanyahu alla Casa Bianca il più sensato credo l'abbia scritto un osservatore navigato dei rapporti tra Stati Uniti e Israele come Shmuel Rosner, già corrispondente da Washington per il Jerusalem Post e oggi firma del Jewish Journal. «Donald Trump è la versione politica delle macchie di Rorschach - ha commentato a caldo -: dimmi che cosa senti quando parla e ti dirò che cosa vuoi».

Sul tanto atteso primo incontro tra il presidente fuori dagli schemi e il premier israeliano, Rosner ha assolutamente ragione: il faccia a faccia è servito più a far parlare gli altri che a chiarire quale sarà la politica di Trump nei confronti di Israele. Molti hanno definito una «svolta» per la politica americana la frase per cui «due Stati o uno Stato» per il nuovo presidente sono indifferenti, «basta che loro siano d'accordo». In realtà è una frase che dice ben poco; come chiunque sa bene, infatti, il punto è che «loro» non sono affatto d'accordo né sull'una né sull'altra ipotesi. E il compito di chi parla della pace in Medio Oriente come «l'affare della vita» dovrebbe essere invece quello di indicare una possibile soluzione che metta d'accordo chi storicamente non lo è.

Certo, con la solita uscita un po' naive Trump un merito l'ha avuto: quello di chiamare il bluff di chi negli ultimi quindici anni ha ridotto la formula «due Stati per due popoli» a un mantra del tutto vuoto. Nel modo in cui era stata pensata a Oslo quell'idea è ormai tramontata perché la comunità internazionale - nel momento in cui è andata in crisi - non ha avuto la forza di salvaguardarla. Però c'è poco da illudersi con i giochi di parole: quale sarebbe l'ipotesi dello Stato unico? Uno Stato ebraico con qualche riserva indiana a macchia di leopardo dove garantire ai palestinesi una certa autonomia amministrativa? Davvero qualcuno pensa che questa possa essere la strada per una pace duratura?

Servirebbero soluzioni creative; ma se l'amministrazione Trump le ha in mente in questi giorni ha giocato molto bene a confondere le carte per tenerle coperte. Come tutti i suoi predecessori l'inquilino della Casa Bianca ha detto a Netanyahu che anche Israele dovrà rinunciare a qualcosa e che magari costruire «qualche insediamento in meno» potrebbe essere d'aiuto. Nel frattempo, però, al Congresso proseguivano le audizioni del nuovo ambasciatore in Israele David Friedman che è uno che fino all'altro giorno era presidente di un'associazione che la costruzione di insediamenti la finanziava. E non solo quelli nei famosi «blocchi», le zone più vicine alla Linea Verde, ma anche quelli più divisivi, collocati nelle zone più densamente popolate dai palestinesi.

L'impressione vera, quindi, è che ci sia un punto di assoluta continuità nella politica americana: sarà anche «l'affare della vita», ma per Trump la pace in Medio Oriente oggi non è una priorità. Anche perché - in effetti - le parole politicamente più pesanti l'altra sera alla Casa Bianca le ha dette Netanyahu. Il premier israeliano si è spinto molto avanti, infatti, nel descrivere la nuova stagione di rapporti tra lo Stato ebraico e «i Paesi arabi». «Per la prima volta nella mia vita - ha detto - vedo Israele considerato non come un nemico, ma come un alleato». Con un pizzico di pudore Bibi ha evitato di dire di quali Paesi arabi stesse parlando; ma non è difficile capirlo: l'Egitto, certo; decisamente meno la Giordania; ma quelli che aveva in mente sul serio sono l'Arabia Saudita e le monarchie del Golfo. La verità è che l'alleanza contro l'Iran - avvertito come il nemico comune dallo Stato ebraico e da Riyad con i suoi satelliti - sta galoppando oggi in Medio Oriente.

Netanyahu a Washington ha raccontato anche la favoletta secondo cui alla fine saranno proprio questi nuovi rapporti a livello regionale a rendere possibile la pace con i palestinesi. In realtà non ci crede nemmeno lui: sa benissimo che dal 2002 i sauditi un piano di pace per Israele e Palestina l'hanno presentato ed è incompatibile con tutto ciò che il suo governo ha promosso in questi anni. Anche per i sauditi, però, quel pezzo di carta oggi non conta nulla: c'è l'Iran a cui pensare, mica lo Stato palestinese.

Per cui oggi vanno bene a tutti le macchie di Rorschach: a Trump che non scopre le carte; a Netanyahu che può utilizzare liberamente quanto gli serve per contenere la destra estrema di Neftali Bennett all'interno del suo governo; ai sauditi che possono provare a evitare di perdere la faccia nelle piazze arabe. Gerusalemme può attendere: i giochi veri oggi si fanno in Siria e in Iraq. E sono più aperti che mai.