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COMUNISMO

Il colosso cinese schiaccia la piccola Hong Kong

Dopo 75 giorni di protesta pacifica, la polizia di Hong Kong ha smantellato gli accampamenti di Occupy. La Cina totalitaria ha lasciato sfogare e poi ha represso i democratici di Hong Kong. E in Europa, invece di mobilitarci per chi voleva liberarsi dal comunismo, siamo sempre più apologeti di Pechino.

Esteri 13_12_2014
"Noi torneremo"

Dopo 75 giorni di occupazione dei punti chiave di Hong Kong, il movimento di Occupy Central e le organizzazioni di opposizione studentesche sono state allontanate dalla polizia. I loro accampamenti sono stati sgomberati nell’arco di una sola notte. Tutti le vestigia della lunga e pacifica protesta contro la Cina, comprese opere d’arte e una serie di scritte sulla democrazia lasciate sul “muro di Lennon” sono state cancellate. Sono 247 gli attivisti e leader democratici arrestati (e rilasciati subito dopo) dalla polizia.

Si conclude così il tentativo pacifico di opporsi alla riforma dell’autonomia di Hong Kong, calata dall’alto dal regime di Pechino. I leader di Occupy e dei movimenti studenteschi, come c’era da attenderselo, non si danno per vinti. Ora non possono far altro che attendere, però, la fine del prossimo round negoziale fra le opposizioni riconosciute di Hong Kong e i rappresentanti della Repubblica Popolare Cinese. Per il 2017 era stata promessa una vera democrazia all’ex colonia britannica. Disattendendo questa promessa (che era data per scontata dalla Gran Bretagna, ma mai affermata dalla Cina), Pechino ha scelto per Hong Kong una forma di democrazia molto controllata, senza suffragio universale, in cui il governatore viene scelto da un ristretto elettorato di consiglieri, scelti soprattutto da Pechino e da élite locali sue alleate. E’ questa imposizione dal governo centrale che ha fatto insorgere l’opposizione, a partire dall’estate scorsa. Ora si continuerà a trattare. Alex Chow, il leader della protesta studentesca, invita a boicottare il secondo round negoziale e si dice pronto a scendere ancora in piazza. Benny Tai, uno dei leader di Occupy Central, ha promesso che la protesta e le occupazioni ricominceranno se, anche dopo questo negoziato, Pechino dovesse ribadire la sua linea. Ma, per ora, l’esito di questi 75 giorni di manifestazioni e sit-in, sembra veramente non dare adito a equivoci: nel braccio di ferro fra la democrazia e la dittatura ha vinto, in modo drammaticamente inequivocabile, la dittatura.

Hong Kong poteva anche essere intesa come una vetrina liberale capace di ispirare il resto della Cina. Così, almeno, l’aveva concepita Margaret Thatcher quando, nel 1984, aveva restituito la città alla Cina continentale, dopo quasi un secolo di colonialismo. A trent’anni esatti di distanza possiamo ben vedere che Hong Kong non abbia ispirato alcuna riforma democratica in Cina. Al contrario, è la Cina che sta imponendo il suo sistema a Hong Kong, lentamente ma inesorabilmente. Se Pechino completerà il suo disegno, la città-stato, dal 2017, sarà sotto il controllo politico del regime. Da lì a sopprimere le libertà residue di espressione, religione e di mercato, il passo sarà molto più breve.

Il braccio di ferro fra la piccola Hong Kong e la grande Cina, è abbastanza emblematico di una tendenza in corso dal 1989 ad oggi. La politica occidentale nei confronti di Pechino è infatti sempre stata incentrata sul dialogo, l’inclusione e la speranza di una riforma interna alla Cina. Dopo un primo periodo di confronto duro e sanzioni, dopo la repressione di piazza Tienanmen del 4 giugno 1989, tutto l’Occidente, a partire da Usa e Unione Europea, ha sempre perseguito una politica di apertura e appeasement. La Cina è stata ammessa del Wto e questo, si pensava, avrebbe spianato la strada anche ad aperture politiche, oltre che economiche. Invece no: i cambiamenti in economia sono stati molto pochi, con una finanza controllata dallo Stato e chiusa agli investimenti stranieri, un commercio che resta protezionista per le merci altrui e liberale solo per quelle proprie da esportare. Le terre sono ancora collettive e i contadini sono sistematicamente privati degli appezzamenti di cui sono solo inquilini. Le industrie restano saldamente nelle mani della cerchia di potere del Partito. Il lavoro forzato non è stato affatto abolito, rimane in piedi un intero arcipelago di circa 1000 campi di concentramento, chiamati Laogai. In politica, il Partito Comunista rimane arroccato nella sua posizione di partito unico al potere. Non ci sono progressi nel campo dei diritti civili. La Cina resta il Paese con il più alto numero di esecuzioni capitali al mondo. Solo l’anno scorso Pechino ha ammesso di trapiantare e vendere gli organi dei prigionieri fucilati e non ha ancora vietato del tutto questo commercio. Periodicamente vengono annunciate liberalizzazioni in campo familiare, ma intanto continua la “politica del figlio unico”, e l’aborto forzato viene praticato per ogni figlio concepito dopo il primo. La censura sulla stampa è rigorosa e, nel suo genere, anche innovativa: il “great firewall” seleziona ed elimina tutte le informazioni proibite che passano su Internet. Le religioni non sono libere: essere cattolici e fedeli al Papa, ancora oggi, comporta il rischio della propria vita.

Se questa è la Cina, Hong Kong, nel prossimo futuro, potrebbe assomigliarle molto. Oggi è uno dei luoghi più liberi al mondo, sia in termini economici che di libertà di espressione e religione: potrebbe anche essere l’ultima boccata di libertà prima che subentri il buio totalitario. Ma c’è una tendenza più preoccupante ancora: anche l’Occidente, dopo sette anni di crisi, sta iniziando ad aspirare, volontariamente, al modello cinese. In Italia, la maggior cantrice di Pechino e del suo sistema è certamente l’economista Loretta Napoleoni, vicina al Movimento 5 Stelle e autrice di “Maonomics”. Lei chiama “capi-comunismo” il sistema neo-maoista, lo descrive come un adattamento della dottrina marxista alle esigenze della realtà di un mercato globale. E lo vede come una cura “dolorosa ma necessaria” ai vizi del “neoliberismo” occidentale. La Napoleoni è la più esplicita, ma quanti apologeti del regime cinese ci sono fra noi? Sempre di più.

L’idea che la Repubblica Popolare sia “immune alla crisi” e sia un modello di crescita superiore a quello europeo è diventato ormai un luogo comune. Attrae soprattutto l’autoritarismo di un gruppo di politici-tecnici che guidano un Paese enorme verso lo sviluppo, senza passare dalle lungaggini imposte dalla democrazia e dal libero mercato. “Fossimo in Cina questa autostrada l’avremmo già finita da anni” è uno dei tipici esempi di ammirazione di quel sistema ed è un luogo comune che si sente ripetere spesso. Se la vecchia utopia dell’Urss è crollata, la Cina è la prima ad averla sostituita. Attrae anche uno degli aspetti più orrendi del sistema cinese, quella “politica del figlio unico” che impone aborti forzati e la rovina di famiglie intere. Anche senza costruire appositi apparati repressivi, ci stiamo arrivando anche noi, piano piano, passo dopo passo. La cultura di base è la stessa che domina anche qui: meno bocche ci saranno da sfamare, maggiore sarà il benessere redistribuito. E’ il socialismo portato alle sue estreme conseguenze, condiviso apertamente anche da Jonathan Gruber, uno degli ideatori della riforma sanitaria degli Usa, secondo il quale “L’aborto è un bene sociale”, perché impedisce la nascita di “bambini emarginati”.

Ecco perché Hong Kong è sola contro il colosso cinese. Il mondo libero, che avrebbe dovuto mobilitarsi in sua difesa, è sempre un po’ meno libero e un po’ più “cinese”.