Il caso dell'arbitro Serra: se le scuse sono punite
Il caso dell'arbitro Serra è il riflesso di una società che vive le scuse come degradanti: se avesse difeso la discrezionalità del vantaggio, non sarebbe stato retrocesso in B. Così si scoraggeranno gli altri arbitri ad ammettere i propri errori. Invece si meriterebbe di dirigere una finale di Champions, non perché non sbaglierebbe, ma perché ha dato la miglior garanzia di imparzialità: la correttezza.
Elogio pubblico delle scuse e dell’arbitro Marco Serra da Torino da parte di un tifoso milanista. Un direttore di gara che alza la mano per chiedere perdono ai giocatori della squadra ai quali ha appena fatto un torto, meriterebbe di dirigere la finale di Champions League, non di essere retrocesso in serie B, come invece accadrà al fischietto di Milan Spezia.
Nel mondo alla rovescia in cui viviamo, dove chi nega di aver sbagliato fa carriera e chi si umilia invece viene declassato, assistiamo alla sproporzione di una pena ad un reo confesso nei confronti del quale, proprio in virtù del suo pentimento di fronte ad un errore, purtroppo non rimediabile, ha dimostrato di essere molto più maturo e umano di tanti suoi colleghi.
Colleghi, che invece di ammettere errori, ingoierebbero la bomboletta per le barriere perché ammettere di aver sbagliato, lo stiamo vedendo in queste ore, comporta un arretramento di carriera.
Riavvolgiamo il nastro.
Al novantaduesimo del secondo tempo l’arbitro Marco Serra, invece di concedere un vantaggio al Milan che Junior Messiah avrebbe trasformato in gol, fischia il fallo al limite dell’area su Rebic, rendendo quindi vano il sinistro del brasiliano all’incrocio che avrebbe decretato il 2 a 1 per i Rossoneri.
L’arbitro si scusa subito, ma il vantaggio è a discrezione del direttore di gara, non è un fatto tecnico come un fuorigioco, che se è non dato erroneamente, può essere revocato con l’ausilio del Var. Ma se è discrezionale, è evidente che l’arbitro avrebbe potuto anche non concederlo convintamente e, per quanto irrealistico e con i petardi che sarebbero piovuti dagli spalti di San Siro, tanto sarebbe stato clamoroso, probabilmente non avrebbe subito il processo sportivo che invece sta subendo ora.
La storia del calcio è piena di arbitri che difendono a oltranza la bontà delle loro scelte e che non hanno dovuto subire declassamenti, almeno qualche stop oppure che cambiano idea solo quando si ritrovano dall’altra parte della barricata.
Ceccarini, ad esempio, ancora sostiene che Iuliano non abbia abbattuto Ronaldo nel celebre Inter-Juve del ’98 e c’è anche chi ha detto che il gol di Muntari nel 2012 dipendesse dalla prospettiva da cui lo si guardava. Ma quelli erano errori macroscopici. Eppure, nessuno dei fischietti subì pesanti conseguenze per non aver ammesso quegli errori.
Invece, quello che sta succedendo a Serra è curioso e merita una riflessione su quanta poca fiducia si abbia nelle persone che, contrite per aver commesso un errore, esprimono scuse sincere e sofferte, in un’epoca, non solo calcistica, di giustizialismo o quanto meno di rigidità del potere di fronte alla legge, salvo poi aggirarla secondo le convenienze. La quale legge, poi (il sabato ndr), è fatta per l’uomo e non viceversa, ci insegna il Vangelo.
Ne consegue che, a fronte di un errore pubblicamente ammesso, quell’arbitro avrebbe dovuto meritarsi di dirigere una finale anche se il regolamento imponesse una punizione esemplare: non perché non sbaglierebbe, ma d’altra parte nessun arbitro è esente da errori neanche ai Mondiali (ricordiamo quel bel personaggino anche fuori dal campo che è stato Byron Moreno o il fischietto che non vide il morso di Suarez su Chiellini?), ma perché darebbe la miglior garanzia di imparzialità per la direzione di una partita: la correttezza di fronte a tutte le azioni, anche quelle che lo vedono in difficoltà.
Invece, retrocedendolo in Serie B, come invece sarà la decisione dei suoi superiori, seppure con la paternalistica scusa di sottrarlo alle pressioni dei prossimi mesi, si scoraggeranno anche gli altri arbitri ad ammettere i propri errori e vincerà la voce del più orgoglioso o arrogante tra i fischietti.
Certo, se Serra fosse stato più protervo, avrebbe ottenuto la difesa della sua corporazione, a maggior ragione su un fatto opinabile. Invece, a danneggiarlo non è stato l’errore, ma le scuse e in una società come la nostra dove le scuse sono viste come una vergogna e neppure contribuiscono alla mitigazione delle colpe, questo diventa non solo un segno di debolezza, ma un comportamento da punire. La meritocrazia di cui tanto si parla, il primato del merito e della bravura, tutti proiettati all’efficientismo della prestazione come siamo, non è il non prendere granchi, ma il saperne gestire le conseguenze e uscirne fuori.
La morale della storia è questa: non importa quanti errori fai, quello che importa è non mostrare mai di arretrare di un millimetro sulla difesa delle proprie decisioni perché questo è sicura garanzia di carriera, ma anche sicuro impoverimento umano e fonte di crescita del proprio orgoglio.
Invece, chi chiede scusa, mostra l’umanità viva della sua carne, ma eleva il proprio animo al di sopra degli opportunismi.