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LE TESI ERRARTE DI COCCOPALMERIO

Il cardinale sbianchetta il VI comandamento

Il cardinale Coccopalmerio poggia le proprie affermazioni sul presupposto errato, contrario al Magistero infallibile della Chiesa, secondo il quale, in taluni casi, è lecito trasgredire un comandamento divino quale “non commettere adulterio”. Ma le cose non stanno così.

Ecclesia 15_02_2017

Il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi, ha appena dato alle stampe, per i tipi della Libreria Editrice Vaticana, un volumetto intitolato “Il capitolo ottavo della Esortazione Apostolica Post Sinodale Amoris Laetitia”. 

Per quanto riguarda l’ammissione all’assoluzione sacramentale e all’Eucaristia dei divorziati risposati conviventi more uxorio, non si vede come l’interpretazione che il cardinale Coccopalmerio dà del capitolo 8 dell’esortazione apostolica di Papa Francesco possa essere compatibile con il Magistero autentico della Chiesa.

Scrive il cardinale:

– «Qualora l’impegno di vivere “come fratello e sorella” si riveli possibile senza difficoltà per il rapporto di coppia, i due conviventi lo accettino volentieri». Se invece tale impegno «determini difficoltà, i due conviventi sembrano di per sé non obbligati, perché verificano il caso del soggetto del quale parla il n. 301 [di “Amoris laetitia”] con questa chiara espressione: “si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa”»

1) È necessario ricordare che il comandamento di Dio “non commettere adulterio” non è, secondo il Magistero autentico della Chiesa, un mero consiglio, ma un precetto universalmente vincolante, il quale pertanto va osservato sempre, ovunque e da chiunque senza eccezioni, sicché in nessun caso è lecito ad alcuno trasgredirlo: il nudo e semplice fatto di trasgredirlo è infatti un male in sé (“intrinsece malum”).

Così, ribadendo il Magistero infallibile al riguardo, si esprime l’enciclica di Giovanni Paolo II “Veritatis Splendor”:

“La ragione attesta che si danno degli oggetti dell’atto umano che si configurano come «non-ordinabili» a Dio, perché contraddicono radicalmente il bene della persona, fatta a sua immagine. Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati «intrinsecamente cattivi» (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze. Per questo, senza minimamente negare l’influsso che sulla moralità hanno le circostanze e soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna che «esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto» (Esort. Ap. Post-sinodale “Reconciliatio et paenitentia”, 2 dicembre 1984, n. 17)” (n. 80)

“Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un’intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti «irrimediabilmente» cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: «Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (“cum iam opera ipsa peccata sunt”) — scrive sant’Agostino —, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (“causis bonis”), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?» (Contra mendacium, VII, 18; cf S. Tommaso D’Aquino, Quaestiones quodlibetales, XI, q. 7,a. 2; Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1753-1755).
Per questo, le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto «soggettivamente» onesto o difendibile come scelta.” (n. 81)

Al riguardo precisa il Catechismo al n. 1756: “È quindi sbagliato giudicare la moralità degli atti umani considerando soltanto l'intenzione che li ispira, o le circostanze (ambiente, pressione sociale, costrizione o necessità di agire, ecc.) che ne costituiscono la cornice. Ci sono atti che per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze e dalle intenzioni, sono sempre gravemente illeciti a motivo del loro oggetto; tali la bestemmia e lo spergiuro, l'omicidio e l'adulterio. Non è lecito compiere il male perché ne derivi un bene.”

2) Il divorziato risposato convivente more uxorio versa in una condizione adulterina e se, come afferma Coccopalmerio, fosse lecito che questi non interrompa la convivenza more uxorio (ossia: se questi non “fosse obbligato” a interrompere tale convivenza), allora sarebbe lecito che questi persista in stato d’adulterio (come potrebbe infatti dimettere lo stato d’adulterio senza dimettere la convivenza more uxorio?), cioè sarebbe lecito che questi trasgredisca quello che invece, come chiarito in 1, non è mai lecito che alcuno trasgredisca, ossia il comandamento divino “non commettere adulterio”. 

Pertanto va rimarcato che il cardinale Coccopalmerio poggia la propria surriferita affermazione sul presupposto errato (in quanto contrario al Magistero infallibile della Chiesa, di cui in 1) secondo il quale, in taluni casi, è lecito trasgredire un comandamento divino quale “non commettere adulterio”. 

Al riguardo, giova richiamare una decisiva affermazione contenuta nella già citata enciclica “Veritatis splendor” di Giovanni Paolo II:

“Per giustificare simili posizioni, alcuni hanno proposto una sorta di duplice statuto della verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l'originalità di una certa considerazione esistenziale più concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale. In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche un'opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette «pastorali» contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un'ermeneutica «creatrice», secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare.

Non vi è chi non colga che con queste impostazioni si trova messa in questione l'identità stessa della coscienza morale di fronte alla libertà dell'uomo e alla legge di Dio.” (n. 56)

Inoltre, nel caso in esame, Coccopalmerio suppone falsamente che il divorziato risposato che interrompesse la convivenza more uxorio e abbracciasse la piena continenza arrecherebbe danno alla prole nata nell’unione adulterina, e quindi si macchierebbe di questa nuova colpa. Ma dove sta scritto che i figli nati dall’unione adulterina sarebbero danneggiati se i loro genitori abbracciassero la piena continenza? Si tratta di un argomento palesemente infondato.

La sincera e fattiva rinuncia al peccato non apporta infatti danno, divisione, discordia, ma all’opposto li risana, come evidenzia Giovanni Paolo II:

“La funzione riconciliatrice della Chiesa deve così svolgersi secondo quell'intimo nesso, che raccorda strettamente il perdono e la remissione del peccato di ciascun uomo alla fondamentale e piena riconciliazione dell'umanità, avvenuta con la redenzione. Questo nesso ci fa capire che, essendo il peccato il principio attivo della divisione - divisione fra l'uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell'essere dell'uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l'uomo e la natura creata da Dio -, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la divisione” (Esort. Apost. “Reconciliatio et paenitentia”, cit., n. 23). 

Per giunta, Coccopalmerio suppone falsamente che dall’osservanza del comandamento “non commettere adulterio” possa ritenersi esonerato lecitamente il divorziato risposato convivente more uxorio che, dalla cessazione della convivenza more uxorio e dall’adesione alla piena continenza conforme a Familiaris Consortio n. 84 e al Catechismo n. 1650 (ossia: dall’osservanza del comandamento stesso), preveda ragionevolmente che deriverebbe una lesione alla “fedeltà della coppia” adulterina di cui è membro (“qualora l’impegno di vivere “come fratello e sorella” si riveli possibile senza difficoltà per il rapporto di coppia, i due conviventi lo accettino volentieri”).

È quasi superfluo ricordare che il Magistero autentico mira proprio a “mettere in difficoltà” ogni rapporto adulterino, giacché insegna che gli adulteri sono tenuti senza eccezioni a cessare di commettere adulterio.

Scrive inoltre il cardinale:

– «Credo che possiamo ritenere, con sicura e tranquilla coscienza che la dottrina, nel caso, è rispettata. La dottrina dell’indissolubilità del matrimonio è nel caso rispettata, perché i fedeli nella situazione ipotizzata si trovano in unioni non legittime, anzi, più precisamente, possiamo senz’altro affermare che tale condizione è oggettivamente di peccato grave. La dottrina del sincero pentimento che contiene il proposito di cambiare la propria condizione di vita come necessario requisito per essere ammessi al sacramento della penitenza è nel caso rispettata, perché i fedeli nelle situazioni ipotizzate, da una parte, hanno coscienza, hanno convinzione, della situazione di peccato oggettivo nella quale attualmente si trovano e, dall’altra, hanno il proposito di cambiare la loro condizione di vita, anche se, in questo momento, non sono in grado di attuare il loro proposito». 

1) Oltre a quanto precisato dalla citata enciclica Veritatis splendor al n. 56, Coccopalmerio sembra trascurare che condizione necessaria per ricevere l’assoluzione nel Sacramento della Riconciliazione (e quindi poter accedere alla Comunione eucaristica) è il fermo proposito di non ricadere nel peccato; fermo proposito che, nel caso in questione, palesemente non si dà, poiché in tale caso il divorziato risposato non si impegna esplicitamente e fermamente a interrompere subito la convivenza more uxorio.

Afferma al riguardo Giovanni Paolo II: 

“Ma l'atto essenziale della penitenza, da parte del penitente, è la contrizione, ossia un chiaro e deciso ripudio del peccato commesso insieme col proposito di non tornare a commetterlo, per l'amore che si porta a Dio e che rinasce col pentimento. Così intesa, la contrizione è, dunque, il principio e l'anima della conversione, di quella «metanoia» evangelica che riporta l'uomo a Dio come il figlio prodigo che ritorna al padre, e che ha nel sacramento della penitenza il suo segno visibile” (Esort. Apost. “Reconciliatio et paenitentia”, cit., n. 31, III)

“È inoltre evidente di per sé che l’accusa dei peccati deve includere il proponimento serio di non commetterne più nel futuro.
Se questa disposizione dell’anima mancasse, in realtà non vi sarebbe pentimento: questo, infatti, verte sul male morale come tale, e dunque non prendere posizione contraria rispetto ad un male morale possibile sarebbe non detestare il male, non avere pentimento.” (Lettera al cardinale William W. Baum e ai partecipanti al corso annuale sul foro interno organizzato dalla Penitenzieria apostolica, 22 marzo 1996, n. 5).

2) Coccopalmerio pare inoltre sottovalutare quanto segue: è contenuto del Magistero infallibile della Chiesa che non possa accadere che un fedele sia lasciato da Dio nell’impossibilità di adempiere a un comandamento divino (quale “non commettere adulterio”). Infatti, è insegnamento infallibile della Chiesa che Dio non fa mai mancare al fedele la grazia necessaria a osservare un comandamento che Egli stesso impartisce (quale “non commettere adulterio”):

“Le tentazioni si possono vincere, i peccati si possono evitare, perché con i comandamenti il Signore ci dona la possibilità di osservarli: «I suoi occhi su coloro che lo temono, egli conosce ogni azione degli uomini. Egli non ha comandato a nessuno di essere empio e non ha dato a nessuno il permesso di peccare» (Sir 15,19-20). L'osservanza della legge di Dio, in determinate situazioni, può essere difficile, difficilissima: non è mai però impossibile. È questo un insegnamento costante della tradizione della Chiesa, così espresso dal Concilio di Trento: «Nessuno poi, benché giustificato, deve ritenersi libero dall'osservanza dei comandamenti; nessuno deve far propria quell'espressione temeraria e condannata con la scomunica dei Padri, secondo la quale è impossibile all'uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio. Dio infatti non comanda ciò che è impossibile, ma nel comandare ti esorta a fare tutto quello che puoi, a chiedere ciò che non puoi e ti aiuta perché tu possa; infatti "i comandamenti di Dio non sono gravosi" (cf 1 Gv 5,3) e "il suo giogo è soave e il suo peso è leggero" (cf Mt 11,30) [Sess. VI, Decr. sulla giustificazione Cum hoc tempore, cap. 11; cf can. 18. Il noto testo di sant'Agostino, citato dal Concilio nel passo riferito, è tratto dal De natura et gratia, 45, 50]» (Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, cit., n. 102)

Alla luce di tale verità, Giovanni Paolo II afferma ancora: “Il proposito di non peccare deve fondarsi sulla grazia divina, che il Signore non lascia mai mancare a chi fa ciò che gli è possibile per agire onestamente.” (Lettera al cardinale William W. Baum e ai partecipanti al corso annuale sul foro interno organizzato dalla Penitenzieria apostolica, cit., n. 5).