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LIBIA

Il Califfato è alle nostre porte Agiamo da soli

La difficile congiuntura economica, l’esplosione di crisi internazionali e la coincidente messa a punto del “Libro Bianco della Difesa”, obbligano l’Italia a una riflessione sulle iniziative militari in ambito internazionale e sull’indirizzo della nostra politica di difesa. Urgente che l'Italia agisca anche da sola, senza attendere la Nato e l'Onu.

Editoriali 02_12_2014
La bandiera del Califfato islamico

La difficile congiuntura economica, l’esplosione di gravi crisi internazionali e la coincidente messa a punto del “Libro Bianco della Difesa”, il cui completamento è previsto entro l’anno, impongono all’Italia una seria riflessione sulle future iniziative militari in ambito internazionale e sull’indirizzo che è urgente attribuire alla nostra politica estera e di difesa. Non si tratta solo di decisioni finanziarie, quanto denaro assegnare alle Forze armate, oppure quante navi o quanti jet F-35 comprare. Si tratta, invece, di definire con freddo pragmatismo l’attuale contesto politico strategico per poi trarre le debite conclusioni in termini finanziari e di forze necessarie alla sicurezza della Nazione.

Nei giorni scorsi il Capo di stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, ha reso noto in un’audizione parlamentare che le truppe italiane lasceranno Herat nell’estate del 2015. Ciò significa che dei 1.500 militari oggi schierati in Afghanistan occidentale e degli 800 circa che resteranno tra un mese, dopo la prossima estate ne verranno mantenuti a Kabul non più di 2/300. Il ritiro dall’Afghanistan, dove di fatto l’Italia mantiene un impegno assunto con gli alleati in una guerra che dura da 14 anni e che da 4 è perduta e senza senso (da quando Barack Obama, nel 2010, annunciò al tempo stesso l’invio di 33 mila rinforzi e il successivo ritiro totale delle truppe), dovrebbe favorire una rivisitazione dei nostri impegni militari. Basta ricoprire il ruolo dei “servi sciocchi”. Occorre cessare di considerarci al servizio degli alleati e della Comunità internazionale per  puntare a rispondere esclusivamente ai diretti interessi nazionali.

Molte ragioni dovrebbero indurre Roma a superare la limitazione auto imposta di intervenire in aree di crisi solo insieme a Nato o Ue e con il via libera dell’Onu innanzitutto perché questi organismi attuano politiche e interventi che non coincidono con i nostri interessi nazionali. Basti pensare alla guerra della Nato alla Libia di Gheddafi diretta nel 2011 a colpire direttamente i nostri interessi o all’attuale politica di sanzioni alla Russia che penalizza i nostri affari e i nostri approvvigionamenti energetici. Il mancato aiuto della Ue di fronte all’emergenza immigrazione (reiterato in questi giorni da un’operazione europea Triton che vorrebbe non farsi coinvolgere nel soccorso ai clandestini) rappresenta un altro chiaro esempio di come occorra ripensare prima di tutto la politica estera e strategica e poi le Forze armate italiane per poter gestire in autonomia interventi militari di carattere nazionale con l’auspicio ovviamente di poter coinvolgere altri Stati.

Occorre del resto riconoscere che l’estenuante attesa di una mobilitazione internazionale per cercare di risolvere la crisi libica non ha dato alcun risultato se non frustrare ulteriormente le aspettative di un’Italia mai come ora così insignificante negli ambiti internazionali e così mortificata dai suoi stessi partner e alleati. Parliamoci chiaro, mai come in questi anni per l’Italia vale il vecchio adagio «dagli amici mi guardi Dio che ai nemici ci penso io». All’imperativo di non sprecare denaro che non abbiamo in missioni in aree dove la nostra influenza sarà sempre scarsa si dovrebbe aggiungere quello, altrettanto stridente, di garantire i nostri interessi nazionali. Anche per questo ha suscitato molte perplessità nei giorni scorsi l’intervista a La Repubblica in cui il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni ha affermato che «un intervento di peacekeeping» in Libia, «rigorosamente sotto l'egida dell'Onu, vedrebbe l'Italia impegnata in prima fila». L'intervento militare dovrebbe però essere «preceduto dall'avvio di un percorso negoziale verso nuove elezioni» in Libia «garantito da un governo di saggi» senza il quale la missione «rischia solo di peggiorare la situazione». Ma le elezioni si sono tenute a fine giugno, le hanno vinte i laici e anche se l’affluenza è stata bassa sono state riconosciute dalla Comunità internazionale. Con le sue parole Gentiloni sostiene la posizione degli islamisti che controllano Tripoli e che definiscono illegittimo l’attuale governo.

Da un lato il ministro ha ricordato che la Libia rappresenta per l'Italia «un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico», dall’altro però dice che vi interverremo solo con una missione di pace in ambito Onu. Peccato però che al Palazzo di Vetro si limitino a lanciare inutili appelli al dialogo e che nessuno pensi lontanamente a schierare caschi blu tra Tripoli e Bengasi per una missione cui gli anglo-americani per primi sono contrari. Anche l’ipotesi di voler favorire il negoziato tra le parti fa acqua dal momento che sia gli islamisti sia il governo legittimo di Tobruk puntano sulle armi per risolvere la guerra. Pensare a trattative di pace o a una missione di peacekeeping in un Paese dove non c’è nessuna “pace da mantenere” e dove Egitto e Qatar (sponsor dei Fratelli Musulmani di Mohanmed Morsi deposto dal generale al-Sisi) combattono una guerra per procura è illusorio. Ci fa perdere tempo quando invece dovremmo intervenire in tempo per tutelare i nostri interessi e i nostri investimenti specie nel settore energetico. Inutile attendersi un aiuto da Onu, Ue e Nato in una crisi che interessa solo i Paesi che ne subiscono le dirette conseguenze in termini di destabilizzazione, terrorismo, immigrati clandestini e rischi energetici, cioè l’Italia e i Paesi confinanti con la Libia. È patetico constatare come Roma attenda ancora la Comunità internazionale per intervenire in Libia quando dovremmo essere noi i primi a darci una mossa . 

Oltre alle forze militari da mobilitare, magari ritirandole dalle tante missioni inutili cui partecipiamo, occorrerebbe che qualcuno a Roma trovasse il coraggio di schierare l’Italia al fianco del governo legittimo e contro gli islamisti, siano essi i Fratelli Musulmani del Fronte “Alba della Libia” o i qaedisti di Ansar al Sharia o gli aderenti allo Stato Islamico basati nel Califfato di Derna. Nei giorni scorsi, in un’intervista al Corriere della Sera, il generale Khalifa Haftar schieratosi oggi col governo di Tobruk e alla testa dell’Operazione Dignità contro tutti i gruppi islamisti, non ha usato mezzi termini. «Gli europei non capiscono la catastrofe che si rischia da questa parte di Mediterraneo. Attraverso l'immigrazione illegale ci arrivano jihadisti turchi, egiziani, algerini, sudanesi. Tutti fedeli ad Ansar al Sharia o all'Is. Quanti italiani sanno che davanti a casa loro, a Derna, è stato proclamato il califfato e si tagliano le teste? L'Europa deve svegliarsi», ha detto  Haftar. «Non chiediamo che ci mandiate truppe di terra o aerei a bombardare: se abbiamo le forniture militari giuste, facciamo da noi. Il mondo vede i nostri soldati decapitati, le autobombe, le torture: potete accettare tutto questo?». Evidentemente sì se persino l’Italia continua a insistere su un’opzione negoziale priva di fondamento concreto. Se impiegassimo in Libia bombardieri, droni, consiglieri militari e armi che stiamo inviando in Iraq e ai curdi, potremmo contribuire in modo efficace e determinante alla guerra contro gli islamisti affiancando l’Egitto che da mesi ci chiede di scendere in campo a difesa del governo laico e legittimo.

Un nostro ruolo diretto nella crisi ci consentirebbe inoltre di assumere una leadership regionale nel Mediterraneo in risposta al ruolo spregiudicato e filo-islamista della Turchia. Roma potrebbe ritagliarsi un’area d’influenza importante con Egitto, Algeria, Tunisia e Paesi del Sahel che non si fidano più dell’ambigua politica statunitense che dice di combattere il terrorismo islamico ma ne facilita la diffusione muovendo guerra ai regimi laici come quello di Gheddafi e Bashar Assad. L’occasione sarebbe propizia per ritornare a porre il focus dei nostri interessi nazionali sul Mediterraneo un’area in cui anche sul piano militare potremmo dire la nostra. Ovviamente tutto questo richiede una classe politica preparata e con una strategia ben chiara, elementi di cui non si vede neppure l’ombra mentre abbonda opportunismo e ambiguità specie nei confronti delle monarchie sunnite del Golfo: sponsor dei terroristi che l’intera Europa supplica di investire a casa nostra. A conferma dell’ormai consueto atteggiamento bifronte che caratterizza la politica italiana, basti pensare che lunedì scorso a Roma è stato accolto il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, giunto in Italia sperando invano di incassare un aiuto militare per la guerra in Libia. Il giorno dopo il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, si è recata in Qatar a parlare di cooperazione militare e a perorare la vendita di armi italiane all’emirato che è anche il maggiore sponsor degli islamisti in Libia.