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SCUOLA

Il bullo in classe figlio della cappa statalista

Di fronte al caso dello studente di Lucca che ha preso a testate il professore, al di là delle banalità ministeriali, giova ricordare due cose. La prima: non tutti gli insegnanti preparati sulla materia sono adatti a insegnare. La seconda: anche questa violenza è figlia della logica statale, che non consente un'autonomia gestionale che servirebbe alla scuola statale per ripartire.

Editoriali 21_04_2018

“Perché non reagisce? Perché non lo punisce? Guardando il video girato in quella classe di Lucca, dove uno studente pretende con la violenza il “sei politico” dal suo docente, e lo prende perfino a testate con un casco, ci siamo tutti fatti questa domanda: perché il professore non esercita la sua autorità?” E’ quanto si chiede Antonio Polito in un interessante articolo uscito oggi sul Corriere della Sera, a riguardo dell’episodio di bullismo contro un docente avvenuto in un Istituto Tecnico di Lucca. Come è possibile che accada una cosa simile? Sembra impossibile, eppure, come riportato da diversi organi di stampa, nei primi quattro mesi del 2018 ben 26 insegnanti sono stati aggrediti dentro o nei dintorni di scuole italiane. In pratica, uno ogni quattro giorni. Una vera e propria emergenza sociale. Cosa sta succedendo?

Il ministro uscente Fedeli invoca il pugno duro e ricorda che le punizioni giungono sino all’esclusione dallo scrutino finale: “Chi infrange le regole, chi ricorre alla violenza verbale o fisica nei confronti di professoresse e professori va sanzionato secondo le norme vigenti, che prevedono la sospensione dalle lezioni per periodi di tempo diversi a seconda della gravità delle azioni compiute e, nei casi più gravi, anche la non ammissione allo scrutinio finale“.

È la fiera delle banalità: dobbiamo attendere che accadano episodi simili per ribadire concetti tanto ovvi quanto disattesi? Stando a quanto segnalato da Evangelisti su Il Messaggero, lo scorso anno solo lo 0,1% degli studenti è stato bocciato a causa della sua cattiva condotta. Ha ragione Polito, allora, a parlare di “cultura fintamente permissiva, cinica e narcisistica, che spinge a dar ragione ai giovani anche quando hanno torto: per pavidità, per convenienza, perché i ragazzi sono oggi generosi consumatori, divoratori di mode, e modelli per adultescenti che non vogliono invecchiare mai, e per questo vengono vezzeggiati anche nei loro peggiori difetti”. 

Tuttavia, credo, non saranno le analisi né le regole ferree (che pur ci vogliono…) a fermare una frana di simile portata, sulle cui cause remote ho già espresso in altro articolo il mio punto di vista. Vorrei solo aggiungere, alle tante cose giuste già evidenziate da altri più competenti di me, due aspetti di cui si parla poco, probabilmente perché politicamente poco corretti.

Il primo, è un tentativo di riposta alla domanda posta in apertura da Polito: “Perché non reagisce? Perché non lo punisce?”. La risposta, al netto di tutte le motivazioni di natura sociologica e culturale espresse nell’articolo, è molto semplice da individuare per chiunque abbia lavorato un po’ di tempo (particolarmente se con funzioni di responsabilità) dentro una scuola statale: ci sono persone buone e molto preparate quanto a conoscenza della materia, che però non sono adatte ad insegnare.

Non sono adatte perché non hanno la solidità psicologica per stare di fronte a classi che hanno mediamente un atteggiamento oppositivo; non sono adatte perché non hanno ricevuto a loro volta una formazione umana che gli permetta di stare davanti ai ragazzi con quella apertura e certezza che consente di non cadere nella trappola dell’alternativa “autoritarismo-permissivismo”; non sono adatte perché sono esse stesse fagocitate dalla cultura odierna, che sforna adulti  “generosi consumatori, divoratori di mode….che non vogliono invecchiare mai”; non sono adatte perché sono deboli. Insegnare è un mestiere difficilissimo, che necessita di risorse umane non indifferenti e comporta responsabilità gravissime, dato che riguarda la crescita umana e culturale delle giovani generazioni, quelle che avranno in mano la società di domani. 

In Italia, purtroppo, vige la logica che l’insegnamento è un lavoro di ripiego, quello che fanno “gli sfigati”. Le analisi statistiche sull’orientamento universitario dei giovani diplomati ne sono una dimostrazione: sempre meno studenti hanno come prospettiva l’insegnamento e si iscrivono a scienze della formazione primaria in maggioranza quelli che hanno conseguito un voto basso all’esame di maturità e molti che cambiano facoltà dopo il primo anno.

Per essere ammessi all’insegnamento occorrerebbero selezioni accuratissime sotto diversi profili, mentre nella scuola entra di tutto e di più, grazie alla imperante logica sindacale che ne ha modificato geneticamente lo scopo, trasformando un luogo di educazione e formazione in un ammortizzatore sociale.

Altro aspetto che non viene messo in luce è questo: perché questi episodi accadono solo nella scuola statale? Vero è che la scuola non statale rappresenta “solo” il 10% del sistema nazionale di istruzione, però questa non è una spiegazione esauriente. La ragione vera è che la scuola non statale dispone di quella autonomia gestionale che servirebbe alla scuola statale per ripartire: possibilità di assunzione diretta del personale; figure dirigenziali dedicate alla supervisione didattica ed educativa; maggiore coinvolgimento delle famiglie e dunque possibilità di un rapporto coi genitori più stretto ed efficace; esistenza di un Ente Gestore che si prende a cuore la scuola in tutti i suoi aspetti, mentre lo Stato è presenza evanescente.

Forse, se si avesse il coraggio di mettere a tema questi aspetti politicamente scorretti, si riuscirebbe anche ad individuare la strada percorribile per uscire dalla melma in cui si è infilata la scuola italiana: una vera e completa autonomia. Tutte le analisi fatte in questi giorni sono utili e sacrosante, ma non possono essere risolutive, mentre da qui si potrebbe davvero ripartire.