Il bene del paese non è il governo, ma è quello che il governo fa
La sentenza Berlusconi mostra la necessità di equilibrare i poteri dello Stato. Ma sia chiaro: non si può barattare la stabilità di un governo con leggi che minano famiglia, vita ed educazione.
Le reazioni alla sentenza della Cassazione contro Silvio Berlusconi da una parte confermano un’anomalia tutta italiana, dall’altra mettono in rilievo un grande equivoco.
Cominciamo dall’anomalia: i festeggiamenti da una parte e le forti proteste dall’altra dicono di una giustizia ridotta a tifo politico. Non c’è dubbio che la stragrande maggioranza degli italiani che discute tanto animatamente della sentenza Berlusconi, a malapena conosce l’oggetto della sentenza stessa, figurarsi i dettagli del processo così tanto da avere un’idea precisa su colpevolezza o innocenza di Berlusconi. Del leader del Pdl si può pensare quel che si vuole – umanamente e politicamente -, ma è difficile negare che la solerzia con cui alcune procure indagano su di lui da quando è sceso in politica venti anni fa desta più di qualche sospetto. E comunque appare evidente che l’equilibrio tra i poteri dello Stato è ormai un lontano ricordo del passato.
Il potere giudiziario è diventato onnipotente: sceglie i governi, fa le leggi (soprattutto quelle contro la vita e la famiglia, basta reinterpretare le norme), in misura decisamente minore amministra la giustizia (come dimostrano le ripetute condanne della Ue per la lunghezza dei processi). Così accade che davanti a una sentenza di uno dei tanti processi intentati a Berlusconi passi in secondo piano la verifica della veridicità dei capi d’accusa. L’eliminazione o la salvezza a prescindere del leader politico sono in realtà quello che conta. E da questo dipendono anche le sorti politiche del paese. Se questo accade c’è evidentemente qualcosa di molto sbagliato nel sistema, un corto circuito tra potere giudiziario da una parte e legislativo ed esecutivo dell’altra, che va riparato al più presto.
Proprio le conseguenze politiche della sentenza mettono in rilievo anche il grande equivoco. Già da prima della sentenza i leader della maggioranza si affannavano ad affermare che l’esistenza del governo non doveva essere messa in discussione da una eventuale condanna, e lo stesso Berlusconi ha affermato ieri che il governo deve andare avanti, silenziando i “falchi” del Pdl già pronti alla “guerra civile” (ma il fatto che ad evocarla fosse stato Sandro Bondi aveva già fatto perdere credibilità alla minaccia).
C’è però un modo diffuso di parlare del governo in cui si dà per scontato che il fatto che esso resti in piedi sia in sé un bene, mentre al contrario una sua caduta sarebbe un disastro per il paese. Tenace sostenitore di questa tesi è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, pronto a minacciare le sue dimissioni per salvare il governo Letta.
In linea di principio si può anche convenire che è meglio che un governo ci sia piuttosto che non, ma anche su questo ci sarebbe da discutere: non solo abbiamo l’esempio del Belgio, andato avanti benissimo per un anno e mezzo senza governo; vediamo anche in casa nostra che lo spread è andato alle stelle in presenza di un governo (Berlusconi) e si è mantenuto ai minimi nelle lunghe trattative post-elezioni malgrado la forte instabilità del quadro politico. Ma quello che più importa è ciò che un governo fa. Se per mantenere in vita un esecutivo bisogna digerire una serie di provvedimenti che distruggono la famiglia, la persona, la libertà di educazione – che sono anche il fondamento di ogni possibile ripresa dell’Italia – bè, allora lo scambio non è accettabile.
Fu il grave errore della Democrazia Cristiana barattare la stabilità del governo con la concessione dell’aborto legalizzato. Continuare a commettere questi errori è la più grave corruzione. Non si può continuare a confondere il fine con i mezzi, facendo oltretutto finta che sia per il bene dell’Italia.