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INTERVISTA A STEFAN BIELANSKI

Il 9 novembre di 30 anni fa il comunismo morì sotto le macerie del Muro

1989, il 7 ottobre la Repubblica Democratica Tedesca, la Germania Est comunista, festeggiava il suo 40mo anniversario della fondazione. Un mese e due giorni dopo, il 9 novembre di 30 anni fa, la popolazione di Berlino Est iniziava a scavalcare impunemente il Muro di Berlino. Era l'inizio della fine, rapidissima, dei regimi comunisti dell'Europa centrale e orientale. Contrariamente alle tragedie dei decenni precedenti in Ungheria e Cecoslovacchia, fu una rivoluzione pacifica. Una quiete e una rapidità che restano un grande mistero della storia. Ne parliamo con Stefan Bielanski, storico e politologo professore presso l'Istituto di Politologia dell'Università Pedagogica di Cracovia.

Esteri 09_11_2019
Abbattimento del muro di Berlino

1989, il 7 ottobre la Repubblica Democratica Tedesca, la Germania Est comunista, festeggiava il suo 40mo anniversario della fondazione. Un mese e due giorni dopo, il 9 novembre di 30 anni fa, la popolazione di Berlino Est iniziava a scavalcare impunemente il Muro di Berlino. Dal 1961, la barriera in cemento armato, reticolati elettrificati e torrette di guardia, impediva a tutti i cittadini della Germania orientale di affacciarsi su quella piccola finestra di mondo libero che era l’enclave di Berlino Ovest. Centinaia di persone erano state uccise dalla polizia mentre cercavano di varcarlo. Dall’estate del 1989, l’Ungheria (il più “liberale” fra i regimi socialisti) aveva aperto la frontiera. Ed era come aver aperto la diga su un fiume in piena: centinaia di migliaia di tedeschi orientali si erano riversati in Austria. Due mesi prima, a giugno, in Polonia si erano tenute le prime elezioni multi-partitiche. Ma solo con l’abbattimento del Muro di Berlino, con la sua forte carica simbolica, collassarono uno dietro l’altro tutti i regimi del blocco sovietico. Entro la fine del 1989 non ne era rimasto in piedi nemmeno uno. Due anni dopo, sarebbe toccato alla neutrale Jugoslavia e alla fine del 1991 anche alla stessa Unione Sovietica. Come si spiega che, dopo mezzo secolo di guerra fredda e rischio di conflitto nucleare, una delle due parti finisse così, senza sparare un colpo? Ne abbiamo parlato con Stefan Bielanski, storico e politologo professore presso l'Istituto di Politologia dell'Università Pedagogica di Cracovia.

Professor Bielanski, il Muro di Berlino cadde il 9 novembre. Tuttavia, cinque mesi prima in Polonia si tennero le prime elezioni multi-partitiche. Quanto quel voto influì sulla caduta del Muro?

È vero che il Muro di Berlino diventò il simbolo dei cambiamenti politici e, prima di tutto, della fine del comunismo in tutta l'Europa centro-orientale. In fin dei conti, e prendendo in considerazione l'importanza della Germania federale nella geopolitica europea e mondiale, si potrebbe addirittura dire che il Muro venne costruito apposta per essere abbattuto nel momento opportuno. Non va dimenticato che, tranne una rivolta nel lontano 1953, la Germania orientale, la famosa DDR, si presentava agli occhi degli altri paesi sottoposti al dominio sovietico, come prima della classe della scuola di Mosca, anche se - e questo va pure riconosciuto - il clima della disobbedienza civile (più che di rivolta) è arrivato nell'Est tedesco proprio nel 1989. Senza dubbio ha influito un cambiamento politico già in pieno svolgimento in Polonia e in Ungheria che, per altro, hanno permesso ai cittadini della Germania orientale la loro fuga verso l’Occidente. Infatti, i nuovi governi di Varsavia e di Budapest non volevano più rispondere alle richieste di Berlino Est e addirittura di Mosca. Sul versante politico ciò che accadeva nei paesi ribelli del blocco sovietico era molto attraente, sia per dissidenti che per giovani tedeschi orientali. Oggi sui media in Polonia è stato ricordato che nel giorno della caduta del Muro, una giovane chimica era in Polonia con gli amici dell'ambiente scientifico, ovviamente iscritti a Solidarność. Questa giovane scienziata si chiamava Angela Merkel. Ma non è l’unica personalità politica del nostro tempo che si è formata in quel 1989: come il giovane politico liberal-democratico ungherese, Viktor Orban, oppure ancora il poco conosciuto Jarosław Kaczyński, come tanti altri legato a Solidarność ed eletto senatore nelle elezioni di giugno. Ma era già un “king-maker” poiché riuscì a convincere i capi dei piccoli partiti alleati dei comunisti di passare dall’altra parte, dando così vita al primo governo con la presenza di politici non comunisti: quello di Tadeusz Mazowiecki. Non ci sono dubbi che tali cambiamenti non potevano avvenire senza il consenso dei grandi del mondo, e in primo luogo i leader di Urss e Usa, cioè Michail Gorbachev e George Bush. Non c’è dubbio che il mondo contemporaneo è cambiato a causa degli avvenimenti del 1989-91 che a sua volta hanno segnato la sorte dell'Europa centro-orientale. E proprio per quello non dobbiamo scordare che prima del Muro di Berlino si sono mossi i polacchi (con Solidarność addirittura dal 1980) e gli ungheresi. In Cecoslovacchia (che nel 1993 si dividerà in due repubbliche) c’è stata la "rivoluzione di velluto". Il tutto senza spargimento di sangue. Tranne la Romania, ma in quel caso, come si saprà più tardi, alla rivolta popolare si è aggiunto un regolamento di conti all'interno dell'ormai ex partito comunista e dei suoi servizi segreti.

Le crisi precedenti erano state risolte con la forza militare dai sovietici, a Berlino invece l'esercito rimase nelle caserme. Perché?

Erano altri tempi quando, nel 1956, l'Armata rossa invase l'Ungheria che cercava di uscire dalla dipendenza sovietica come pure è successo nel 1968 con la "primavera di Praga". Nella maggior parte dei casi, le repressioni venivano eseguite dalle forze interne dei Paesi del blocco sovietico, fra cui la Stasi nella Germania orientale. Per capire fino in fondo perché non sono intervenuti né la Stasi né l’Esercito Popolare, saranno sicuramente necessarie le ricerche storiche con utilizzo di documenti ancora segreti in molti archivi. Ma c'è una tesi che non è stata scartata da politologi e storici contemporanei: quella del coinvolgimento, nei cambiamenti, di almeno una parte dei capi dei partiti e dei servizi in diversi Paesi dell'Europa orientale. Tale coinvolgimento è avvenuto sicuramente in Polonia che ha avviato il cambiamento proprio con la "tavola rotonda" cioè mediante i negoziati e la spartizione del potere fra chi l’aveva detenuto per decenni e chi l'aveva combattuto. La validità di tale tesi è stata poi confermata dalla presenza, non marginale, anzi, spesso al governo nei paesi dell'Est, delle forze provenienti direttamente da ex partiti comunisti.

Lei ritiene che la transizione alla democrazia e ad un sistema economico di libero mercato sia riuscito ovunque nei Paesi dell'ex blocco sovietico europeo? Oggi molti osservatori europei occidentali puntano il dito contro l'insorgere di nuovi nazionalismi nell'Est della Germania, in Ungheria e anche nella stessa Polonia, solo per citare i casi più mediatici.

Se guardiamo dalla prospettiva di lungo termine non ci sono dubbi: in ogni Paese la situazione economica è migliorata e dappertutto, pure nei paesi accusati di "populismo" e di "sovranismo", la democrazia si è sviluppata in modo serio. Però la stessa transizione ha evidenziato le differenze, che peraltro c'erano prima, ma quasi nascoste, non solo fra diversi paesi ma addirittura di intere zone. Non a caso crescerà col tempo il famoso Gruppo di Visegrad. Altri problemi esistevano ed esistono sul Baltico (paesi fino al crollo appartenenti all'Urss), nella zona balcanica (Bulgaria, Romania ed ex Jugoslavia, che, va ricordato, non faceva parte del blocco sovietico), per non parlare della ex DDR che è diventata la regione orientale della Repubblica Federale Tedesca, oppure le ambizioni europee dell'Ucraina che fu, insieme alla Russia, addirittura il perno dell'Unione Sovietica. In questo contesto vanno visti, in modo differente, i problemi politici ed economici di diversi Paesi. Il caso esemplare può essere quello della Polonia che nel 1989, a fronte di una bancarotta (a cui l’aveva portata il regime comunista), ha dovuto adottare misure straordinarie. Sono bastati pochi anni alla Polonia per passare da un’economia fallita ad una fiorente, un processo accelerato, indubbiamente, dall'entrata nell'Unione Europea nel 2004. Però, al tempo stesso, il nuovo corso liberale ha lasciato fuori dallo sviluppo ingenti gruppi della società. È in questo contesto, non solo quello ideologico o politico, che vanno intesi i successi del partito conservatore di Jarosław Kaczyński, Diritto e Giustizia (PiS) che per primo, dopo il 1989, ha cominciato a realizzare una politica sociale vera e propria. Le etichette del "nazionalismo", "sovranismo" e "populismo" sono esagerate, anche se ovviamente diversi movimenti nazionalisti - come pure in Europa occidentale, Italia inclusa - partecipano, qualche volta con successo, alla vita politica di questi paesi. Comunque parlare di "dittature" non è neanche esagerato, ma semplicemente assurdo.

Molti leader europei, fra cui Andreotti in Italia, erano contrari alla riunificazione della Germania. Come venne vissuta la riunificazione in Polonia, considerando la memoria della durissima occupazione tedesca?

In Polonia l'atteggiamento di Andreotti non poteva che essere considerato positivamente. Per la verità la Polonia ha temuto la riunificazione in modo particolare a causa del problema dei confini delineati alla conclusione della Seconda guerra mondiale. Va ricordato che la frontiera orientale della Polonia venne fissata sul fiume Bug cioè conformemente alla famigerata “linea Curzon” del 1919. Cosi fuori dei confini della Polonia post-bellica sono rimaste importanti, per la storia della Polonia, città come Lwów (oggi in Ucraina, Lviv) e Wilno (oggi capitale della Lituania come Vilnius). In compenso (territorialmente non equo) la Polonia ottenne la parte orientale dell'ex Reich (con Slesia e Pomerania). Va anche detto che, subito dopo il 1945, i sovietici hanno di fatto deportato i tedeschi dalle loro ex terre orientali, come è successo con i polacchi che abitavano da secoli i loro territori orientali, a loro volta assegnati all'Unione Sovietica.

A posteriori, per provocazione, nostalgia o ideologia, c'è chi maledice quel 9 novembre 1989. Mettendo sul piatto della bilancia i pro e i contro, l'Europa nel suo complesso ha guadagnato o perso dalla fine del bipolarismo?

La storia ha sempre il suo corso oggettivo che è anche difficile prevedere, quindi maledirlo è semplicemente inutile. Ciò che invece conviene fare davvero è provare a capire le origini e le conseguenze di determinati processi storici. In questa ottica, i cambiamenti nell'Europa centro-orientale, di cui la caduta del Muro di Berlino fu uno dei simboli più importanti, sicuramente influì sull'assetto geopolitico dell'Europa e del mondo intero. Le ideologie, come quella comunista, nel mondo sovietico erano morte da tempo e i regimi si reggevano su forze armate e servizi segreti oltre che sugli apparati dei partiti al potere. Non c’è dubbio che il mondo, dopo gli avvenimenti del 1989, sia cambiato radicalmente dal punto di vista ideologico, sociale, economico (specialmente con la successiva globalizzazione), ma forse in modo ancora più evidente sotto l'aspetto geopolitico. Da questo punto di vista, anche se non c’è più il mondo bipolare, rimangono in piedi i progetti ma anche le politiche concrete che fanno riferimento esplicito a quei "bei vecchi tempi" di due superpotenze. Non a caso il presidente russo, Vladimir Putin diverse volte ha ripetuto che il crollo dell'Urss (conseguenza diretta di quello che successe nel 1989) fu “il più grave errore geopolitico del Novecento”. E non a caso chi è contrario a questa politica del nuovo imperialismo russo, che peraltro include anche la tradizione di superpotenza sovietica, fa riferimento alle speranze, spesso deluse ma ancora vive, di quel 1989. Un vero anno dei miracoli che, complessivamente, non può che essere giudicato positivamente.