Il 3 settembre il regime comunista cinese rivendica una vittoria non sua
La parata a Pechino per celebrare gli 80 anni dalla vittoria sul Giappone, si basa su una riscrittura ideologica della storia. Al Partito Comunista Cinese, che nel 1939 era pronto a spartirsi la Cina con il Giappone, viene attribuito un merito che non ha. E che invece appartiene a Taiwan.

Come in Russia il giorno nazionale più importante è diventato il 9 maggio, giorno della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale contro i tedeschi, in Cina sta assumendo sempre più importanza simbolica il 3 settembre, oggi, giorno della vittoria contro il Giappone, sempre nella Seconda Guerra Mondiale. Per oggi a Pechino è infatti prevista l’imponente parata annuale per celebrare l’evento. Dal 1945 al 2025 sono 80 anni tondi e la solennità è maggiore. Ma in più ci sarà la presenza dei nuovi alleati, del nuovo blocco orientale in formazione, fra cui Putin e Kim Jong-un.
La parata della vittoria serve a Xi Jinping per mostrare a partner e alleati la potenza militare cinese, per consolidare con loro un rapporto che non è soltanto politico-economico, ma che un giorno potrà diventare una vera alleanza militare. Non potendo parlare apertamente (per una mera questione di rapporti di forza) di uno Stato mondiale comunista, come faceva Mao Zedong, il fondatore della Repubblica Popolare, Xi si accontenta dell’obiettivo intermedio: un mondo multipolare da dividere con la Russia e con i paesi emergenti del Sud Globale, ma che è sempre un’alternativa radicale al mondo basato su regole liberali e a guida statunitense.
Come tutti i leader che vogliono cambiare l’ordine mondiale, deve prima di tutto cambiare il passato: la storia e la memoria collettiva. Xi Jinping ha trascorso i suoi tredici anni al potere riabilitando la figura di Mao e cancellandone i crimini (nell’ordine delle decine di milioni di morti). E nelle sue celebrazioni della vittoria contro il Giappone nella Seconda Guerra Mondiale, vuole riscrivere il ruolo che ebbe il Partito Comunista Cinese e la Cina nel suo insieme. Xi attribuisce al Partito Comunista il merito della vittoria contro il Giappone, ritiene che il suo regime sia il legittimo successore del governo che sconfisse i giapponesi e fa passare la Cina come potenza vincitrice a tutti gli effetti, con pieno titolo di sedere allo stesso tavolo (e con pari diritti) degli Usa e delle altre potenze vincitrici. Si tratta di tre menzogne, pure e semplici.
Prima di tutto, il Partito Comunista Cinese non era al potere nel 1937 quando iniziò la guerra contro il Giappone. Non lo era neppure nel 1945 quando la guerra mondiale finì. Era un partito di opposizione, proibito fino al momento dell’invasione giapponese e riabilitato, per motivi di coesione nazionale. Quando i giapponesi invaso la Cina e presero Pechino nel 1937, sotto sollecitazione di Stalin, che era alleato di Chiang Kai-shek, comunisti e nazionalisti formarono un Fronte Unito, così come in Europa, su sollecito di Stalin si formavano Fronti Popolari con comunisti, socialisti, democratici antifascisti.
Il Partito Comunista combatté assieme al governo nazionalista, con le proprie milizie, ma solo fino a un certo punto. Affermare che ai comunisti vada attribuito il merito della vittoria contro il Giappone, sarebbe come dire che in Italia furono i partigiani a sconfiggere i nazisti e non gli Alleati. I comunisti diedero sicuramente un contributo importante, decimando i giapponesi nelle retrovie, rendendo perennemente insicure le regioni occupate (anche per i cinesi che volenti o nolenti continuavano a viverci) e soprattutto furono molto bravi a tagliare le vie di comunicazione di terra dell’esercito di occupazione. Ma tutto lo sforzo militare venne sostenuto dall’esercito cinese, sotto il governo nazionalista di Chiang Kai-shek. Governo che continuò a resistere con una determinazione a cui non arrivò neppure Churchill, non arrendendosi neppure dopo la perdita della capitale Nanchino (a cui seguì, per mano giapponese, uno dei più orrendi massacri della guerra), neppure dopo la perdita della seconda capitale provvisoria Wuhan, neppure dopo che la terza capitale in cui si era trasferito, Chongqing, venne bombardata dai giapponesi continuamente, per anni. Chiang non si arrese neppure dopo che, invasa l’Indocina e la Birmania, i giapponesi tagliarono anche le ultime vie di rifornimento a quel che restava della Cina libera. Alla fine della guerra, una volta riarmato e riorganizzato, grazie all’assistenza americana, il nuovo esercito cinese, nato dalle ceneri del precedente, nel 1945 dimostrò anche di saper sconfiggere i giapponesi in una guerra regolare, in Birmania e nelle regioni meridionali della Cina.
Mentre Chiang Kai-shek combatteva strenuamente per difendere la Cina dai Giapponesi, l’esercito comunista di Mao si batteva soprattutto per imporre il comunismo, anche contro i nazionalisti. Ciò fu particolarmente evidente nel periodo in cui vigeva il patto Ribbentrop Molotov, siglato da Germania e Urss il 23 agosto 1939 e finito con l’invasione tedesca dell’Urss il 22 giugno 1941. In quegli anni, Mao rimase alleato dell’Urss e accarezzò l’idea di spartirsi la Cina con i giapponesi, così come Stalin aveva occupato la Polonia spartendosela con i tedeschi. Nella biografia non autorizzata di Mao, gli autori Jung Chang e Jon Halliday, ricordano che in un’intervista rilasciata al giornalista Edgar Snow, Mao si dicesse entusiasta del patto Ribbentrop-Molotov e voleva che venisse firmato un analogo patto nippo-sovietico. Un accordo con il Giappone, contro i nazionalisti, avrebbe permesso di consolidare il potere almeno in una parte consistente della Cina. Mao indicava esplicitamente il modello della spartizione della Polonia. Nel caso della Cina, il nord sarebbe andato ai comunisti e il sud ai giapponesi, con il Fiume Azzurro a fare da confine. Il piano rimase solo sulla carta, non perché Stalin non lo volesse, ma perché i giapponesi non consentirono mai all’Urss di ritagliarsi una sfera di influenza così grande. Nelle ultime trattative in merito, nell’autunno del 1940, i giapponesi erano disposti a riconoscere un predominio comunista nella regione dello Shaanxi, del Ningsia e del Gansu, al confine dello Xinjiang già occupato dai sovietici. Ma per Stalin era troppo poco. I rapporti col Giappone si raffreddarono, anche se comunque nell’aprile del 1941 (sette mesi prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor) venne firmato il patto di non aggressione nippo-sovietico che resse fino all’8 agosto 1945, fino all’ultimo mese di guerra. In questo contesto, per Mao la lotta contro Chiang Kai-shek divenne prioritaria rispetto a quella contro i giapponesi. Già nella prima metà del 1940 i rossi avevano provocato 6mila morti nelle file dei nazionalisti di Chiang Kai-shek. Mentre, fino alla fine di agosto dello stesso anno, venne stabilita una tregua di fatto fra comunisti e giapponesi. Solo il 20 agosto riprese l’offensiva comunista contro il Giappone, con la “battaglia dei cento reggimenti”, ma non finì neppure allora la guerra contro i nazionalisti.
I primi giorni di ottobre 1940, nella battaglia del Ponte Giallo, sul Fiume Azzurro, i comunisti inflissero una pesante sconfitta ai nazionalisti: 11mila morti nelle file di Chiang Kai-shek. I nazionalisti ordinarono a Mao di ritirarsi a nord del grande fiume, ma il leader comunista rifiutò di obbedire. Secondo le comunicazioni con Mosca pubblicate da Chang e Halliday, Mao puntava deliberatamente allo scoppio della guerra civile, per indurre i sovietici a intervenire. I nazionalisti accettarono la provocazione e nel gennaio del 1941 massacrarono le unità comuniste a sud del Fiume Azzurro. Furono i sovietici che intimarono a Mao di smetterla di combattere contro altri cinesi e di ritrovare un accordo con Chiang Kai-shek. Gli equilibri erano mutati e a Stalin, adesso, serviva una Cina unita. Fosse stato per Mao, la guerra civile sarebbe scoppiata già allora. Dovette invece attendere fino al 1945, quando, finalmente libero dall’incombenza di dover combattere anche contro i giapponesi, poté lanciare tutte le sue forze alla conquista della Cina.
Infine, ma non da ultimo: militarmente parlando la Cina non vinse la guerra contro il Giappone. Venne liberata dall’occupazione giapponese solo dopo la resa del Giappone. La vittoria in Asia venne conseguita quasi esclusivamente dagli americani nella Guerra del Pacifico, con un appoggio importante dei britannici in Birmania e nell’Oceano Indiano e un apporto tardivo ma determinante dei sovietici che, nelle ultime due settimane di conflitto, occuparono la Manciuria (attuale Cina nord-orientale). La Cina venne ricompensata con un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, perché aveva combattuto e resistito, contro i giapponesi, ininterrottamente dal 1937 al 1945, più di qualunque altro paese alleato, perdendo dai 14 ai 20 milioni di morti. Ma il riconoscimento venne conferito alla Cina di Chiang Kai-shek, non a quella di Mao. Il leader comunista conquistò il potere con la forza solo nel 1949 e venne escluso dall’Onu. L’unico governo legittimo (e vincitore della guerra) era ancora quello nazionalista, il cui territorio era ormai ridotto alla sola isola di Taiwan, che tuttora resiste. Solo nel 1971, per motivi politici, l’Onu decise di disconoscere il governo nazionalista e di far sedere, al suo posto, in Consiglio, il regime comunista di Mao. Ma il regime comunista da lui instaurato non può legittimamente rivendicare il merito della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale.