Ihab Alrachid, un sacerdote nell'inferno siriano
Padre Ihab Alrachid, 50 anni, sacerdote siriano della diocesi greco-melchita cattolica di Damasco, nella sua testimonianza, in un evento di Aiuto alla Chiesa che Soffre, racconta gli orrori commessi dai jihadisti. Ma anche tanti episodi che testimoniano la vera fede dei cristiani siriani perseguitati. Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani
Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani. Lo era un Siria agli albori della Chiesa nascente, lo è ancora oggi in maniera non meno cruenta. “Prima della guerra, i cristiani erano rispettati, potevano professare pubblicamente la propria fede, andare in chiesa a Natale e Pasqua, che erano considerate feste nazionali. Erano il 9% della popolazione, ora sono meno della metà, ma non possiamo e non dobbiamo perdere la speranza”.
A parlare è padre Ihab Alrachid, 50 anni, sacerdote siriano della diocesi greco-melchita cattolica di Damasco, nel corso di una testimonianza promossa dalla onlus Aiuto alla Chiesa che Soffre, dal 1947 accanto ai cristiani perseguitati nel mondo soprattutto in Siria e in Palestina. “In Siria non c’è solo l’Isis tra i gruppi terroristici, ma anche l’Esercito Islamico, Al Nusra e Al Qaeda – sottolinea don Ihab – Agiscono tutti però animati dallo stesso intento: dove entrano fanno un massacro. Hanno rapito migliaia e migliaia di persone e continuano a farlo, non solo civili, ma soprattutto religiosi, di cui non abbiamo più notizie. Due vescovi ortodossi sono stati rapiti cinque anni fa ad Aleppo e ogni giorno cadono razzi e missili su ospedali, uffici e case”. Non c’è alcuna pietà nei membri di tali gruppi terroristici che arrivano spesso a “violentare le belle e giovani donne siriane per poi condurle al mercato degli schiavi per venderle al miglior offerente”. La furia omicida di chi uccide al grido di “Allah Akbar!” non risparmia neanche i bambini. A tal proposito sono particolarmente commoventi, pur nella loro tragicità, due episodi che testimoniano l’amore a Cristo e al prossimo di questi nostri fratelli nella fede da cui c’è solo da imparare: “Una bambina del catechismo, che si preparava a ricevere la Santa Comunione, è stata colpita da un razzo che le ha tranciato i piedi mentre si stava recando a scuola. Più che il dolore della perdita degli arti inferiori, la sua preoccupazione è stata quella di come potersi avvicinare all’altare per ricevere il Corpo di Cristo. Un’altra giovane quattordicenne è invece rimasta colpita e uccisa da un missile mentre andava a comprare un regalo a sua madre per la festa della mamma dell’indomani”.
Nonostante la devastazione e la guerra abbiano spinto moltissimi cristiani a lasciare la propria terra natia, anche “a Maalula, in un piccolo villaggio devastato e distrutto dai fondamentalisti, in cui si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù, ci sono ancora tanti cristiani che non rinnegano la propria fede, anche a costo della propria stessa vita. Ormai quasi ogni cristiano in Siria – rileva amaramente padre Ihab – ha purtroppo almeno un parente rapito, di cui non riceve più notizie, o ucciso magari anche dinanzi ai propri occhi”. E non hanno rinnegato Cristo nemmeno i due cugini di don Alrachid rapiti cinque anni fa. Uno di essi è stato fortunatamente liberato due anni e mezzo fa, mentre dell’altro non ha ricevuto più notizie. Quello superstite ha potuto raccontare al suo cugino sacerdote come sia stato obbligato dai terroristi a imparare a memoria il Corano prima di essere da loro esaminato nel merito; come abbia subito delle torture per ogni parola sbagliata che pronunciava”. Di qui, alla domanda provocatoria relativa all’esistenza di un islam ‘moderato’, don Ihab risponde con un sorriso di diniego, quasi a lasciar intendere che esso sia solo nella testa di alcuni opinionisti di salotti televisivi borghesi.
Rispetto alla situazione attuale, nonostante continuino le persecuzioni e non diminuisca il rischio cui fedeli vanno incontro ogni volta che partecipano alla Santa Messa, a Damasco le chiese sono piene. “Non possiamo abbandonare la nostra ‘casa’, abbiamo fame della Parola di Dio e del Corpo di Cristo”, affermano infatti i fedeli siriani. Insomma anche dove le pietre delle grandi cattedrali sono cadute, ad Aleppo come a Damasco, restano salde nelle fede le ‘pietre vive’, ossia i cristiani siriani, che “hanno preparato anche il presepe e sono pronti ad accogliere il Salvatore”. La loro testimonianza di fede vissuta e di carità sia per noi dunque un monito a ricordarli quotidianamente nella preghiera, affinché il Cristo che viene come ‘Principe della Pace’ protegga e custodisca ogni cristiano perseguitato, donando agli inermi la forza del martirio e pace e consolazione a quanti hanno perso i propri cari perché in ogni cuore il suo Amore trionfi su ogni forma d’odio e di barbarie.