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I veri poveri

Poveri e poveri in spirito: di quali poveri parla Gesù? Un viaggio nelle Scritture alla ricerca dei veri poveri.

Cultura 18_02_2012
cantalamessa

Per gentile concessione dell'editrice Ancora pubblichiamo un capitolo tratto da "Povertà" (pp. 154, euro 13,50) l'ultimo libro di padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia.

A proposito della beatitudine dei poveri esiste anzitutto un problema letterario — relativo cioè al modo con cui ci si presenta nei vangeli — che è necessario almeno accennare. Esso è costituito dal fatto che la beatitudine ci è riferita in maniera alquanto diversa da Matteo e da Luca. Uno ha il discorso indiretto: «beati i poveri», l’altro il discorso diretto: «beati voi, poveri»; uno ha poveri «in spirito», l’altro semplicemente «poveri». Quale versione è più vicina al tenore originario della predicazione di Gesù?

La quasi totalità degli esegeti ritiene che l’espressione «in spirito» sia una esplicitazione di Matteo. La scoperta, nei testi di Qumran, dell’espressione “poveri in spirito” (aniyé haruah) ha dimostrato che essa si inserisce nel linguaggio e nella spiritualità giudaica del tempo. Da solo però ciò non basta a provare che essa sia materialmente di Gesù, dal momento che anche l’evangelista Matteo riflette lo stesso ambiente e potrebbe quindi avere introdotto lui tale espressione nel testo. La soluzione più plausibile sembra essere quella che ammette una fonte comune dalla quale sia Matteo che Luca dipendono e che portava semplicemente «poveri». Luca, preoccupato di accentuare la portata anche sociale del termine, lo conserva tale e quale, e anzi lo rafforza, contrapponendolo a «ricchi» (Lc 6, 24). Matteo, che ha un intento catechetico, si premura di esplicitare il senso religioso che la parola «poveri» ha nella spiritualità ebraica e nel pensiero di Gesù, aggiungendo «in spirito». Così facendo egli non fa che mettere in atto un criterio normalissimo nella redazione del materiale della tradizione. La stessa preoccupazione di mettere in evidenza la portata morale delle parole di Gesù, si nota anche nelle beatitudini successive. Gli «affamati», per esempio, diventano, in Matteo, «affamati di giustizia».

In tempi recenti, specie negli anni del Concilio, queste differenze sono diventate oggetto di acceso dibattito. Alcuni, privilegiando il dettato di Luca, accentuano il significato sociale delle beatitudini, vedendo espressa con la parola «poveri» anzitutto una condizione sociale, uno stato reale (è questa l’interpretazione fatta propria dalle varie teologie della liberazione). Altri, fondandosi di più su Matteo, accentuano il significato religioso. «Poveri in spirito» indicherebbe più un atteggiamento interiore che uno stato sociale.

Questi ultimi escludono l’idea che Gesù abbia voluto beatificare una classe sociale. Soltanto una situazione spirituale — dicono — può essere messa in relazione a una realtà spirituale come il Regno. Che la povertà reale sia una via privilegiata verso la povertà di spirito è verissimo e Gesù lo ripete in mille modi, tuttavia non si deve pensare che nella beatitudine siano in gioco i proletari o i cosiddetti “uomini della terra” del giudaismo del tempo. Il vero povero evangelico è il cliente di Dio, che ha scommesso tutto su Dio, nella fede. Nel giudaismo dell’epoca, il termine “povero” era praticamente sinonimo di santo (hasid) e di pio.

Altri hanno reagito a questa interpretazione che metterebbe troppo l’accento sulle disposizioni interiori del povero e troppo poco sulla natura del Regno che sta per venire. Le beatitudini, dicono, sono anzitutto una rivelazione sulla misericordia e sulla giustizia che devono caratterizzare il regno di Dio; contengono più una rivelazione su Dio, che sull’uomo, o sul povero. La parola povero usata nel Vangelo (ptochos) indica gli indigenti, gli infelici, gli affamati, che hanno bisogno dell’elemosina per vivere. Il termine ebraico corrispondente, anawîm, indica all’origine, le persone “curve”, cioè abbassate, umiliate, oppresse. Essi sono costretti a curvarsi dinanzi ai più forti e ai più ricchi.

Per quale motivo — ci si chiede — costoro dovrebbero essere favoriti da Dio? Non per i loro particolari “meriti” religiosi, si risponde, o per la loro buona disposizione, ma perché Dio deve a se stesso, in quanto re giusto, di prendere le difese di chi non ha difesa. I poveri, secondo la mentalità dell’Antico Testamento, sono i “protetti del re”. Non si tratta di una giustizia retributiva che dovrebbe ricompensare i meriti che gli sventurati a-vrebbero acquisito, ma di una giustizia di tipo munifico, regale. Dio è obbligato, di fronte a se stesso, a garantire il buon diritto degli uomini che non sono in grado di farlo trionfare con i loro mezzi. E come si spiega, in questo caso, il persistere dello stato di povertà e di oppressione dei poveri anche in Israele? La smentita dei fatti non porta ad abbandonare la convinzione della giustizia regale di Dio, ma a proiettarla nel futuro, nel regno di Dio degli ultimi tempi. Allora i poveri saranno vendicati di tutti coloro che li opprimevano, allora godranno veramente i benefici della sollecitudine di Dio. Il Dio che «rovescia i potenti dai troni e innalza la gente che non conta», che «ricolma di beni gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi», apparirà come la realizzazione perfetta del re ideale. Il significato religioso delle beatitudini resta, ma si tratta di un significato teologico, non antropologico; si fonda su Dio, non sull’uomo.

Il cardinale Lercaro, che ebbe un ruolo determinante nell’introdurre il tema della povertà nelle discussioni conciliari, diceva, proprio in quell’occasione, che bisogna intendere poveri «nel senso comune del termine»; che Gesù non intendeva riconoscere «i meriti di alcuni dei suoi ascoltatori e promettere loro una ricompensa», ma che si tratta di un «insegnamento sulla misericordia totalmente gratuita di Dio», nel quale non hanno alcuna importanza «le disposizioni morali», ma solo il fatto che il Cristo è stato inviato per consolarli.

Queste dunque le due interpretazioni principali della beatitudine dei poveri. Una, come si vede, fa leva più sulla povertà come “stato d’animo”, l’altra più sulla povertà come “stato sociale”. In entrambi i casi il riscatto della povertà viene dal regno di Dio, ma nel primo caso esso suppone una disposizione che è nell’uomo, nel secondo solo l’esigenza di Dio verso se stesso. Presa isolatamente, nessuna delle due tesi soddisfa pienamente. La prima perché tende a escludere troppo il riferimento al sociale, alla realtà della povertà; la seconda perché esclude troppo drasticamente le disposizioni interiori del povero.

Vorrei sottolineare, in particolare, gli inconvenienti della seconda interpretazione che mi sembrano i più gravi. Essa non spiega la parentela stretta che esiste nel Vangelo tra il concetto di povertà e quello di umiltà, tra il privilegio dei poveri e quello dei bambini. Questa, del resto, è una spiegazione che sfocia nel nulla di fatto. Il grande riscatto dei poveri, sociologicamente tali, dovrebbe essere costituito dal regno di Dio, ma poi, analizzando la natura di tale Regno, si vede che, per la loro situazione reale, esso non porta nulla di nuovo, perché non li fa né più ricchi, né più sazi, sul piano materiale. Solo apparentemente, quindi, questa interpretazione moderna è più attenta al sociale. C’è anzi il rischio di strumentalizzare la povertà, facendone solo un’occasione che permette a Dio di dimostrare la sua sovrana giustizia. Senza contare che, anche in questo caso, la realizzazione si situerebbe su un piano del tutto diverso da quello della promessa e dell’attesa: al povero si promette un riscatto dalla sua povertà materiale, ma un riscatto che si rivela, alla fine, essere solo di natura spirituale.

Gesù si preoccupa certamente dei poveri reali, ma non lo fa tanto quando proclama i poveri “beati”, bensì quando considera fatto a lui quello che si è fatto, o non si è fatto, a loro e quando minaccia l’inferno, come nella parabola del ricco epulone, a quelli che non si curano del povero. Nel nostro caso, la difficoltà nasce dall’usare la categoria di “meriti” e di “virtù”, là dove si dovrebbe usare quella di “fede”. Dio non è indotto ad agire a favore dei poveri dai loro meriti o dalle loro disposizioni morali, ma dalla loro maggiore disponibilità a credere.

Nei poveri Dio non apprezza tanto ciò che hanno, quanto ciò che non hanno: autosufficienza, chiusura, pretesa di salvarsi da soli. Pensare il contrario sarebbe come dire che il Regno è offerto prima ai pubblicani e alle prostitute perché Dio privilegia tale “stato” e non perché i peccatori sono capaci di ravvedimento e i falsi giusti no. Non si tratta di sapere se l’agire di Dio presupponga o no qualcosa in antecedenza (è chiaro che non lo presuppone: «chi gli ha dato infatti qualcosa per primo sì da esigerne il contraccambio?»); ma si tratta di sapere se esige qualcosa in risposta. Il povero deve riconoscere e accogliere questa offerta preferenziale di Dio; insomma deve credere: «Dio — dice san Giacomo — ha scelto i poveri nel mondo per farli ricchi mediante la fede» (Gc 2, 5). La beatitudine evangelica «Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli», va letta alla luce del binomio grazia-fede: «Per grazia siete salvati, mediante la fede» (Ef 2, 8). Il “Regno” rappresenta qui l’offerta di grazia e “in spirito” la risposta di fede. I poveri “in spirito” sono i poveri “credenti”. È come se Gesù dicesse: Beati voi poveri «perché avete creduto» (non si deve dimenticare che egli si rivolge a persone concrete che lo avevano seguito, come nei “guai a voi” si rivolge a coloro che di fatto lo avevano rifiutato); oppure: beati voi «se crederete», oppure: «perché siete più pronti a credere». La fede è sullo sfondo di ogni discorso di Gesù.

La soluzione delle difficoltà va dunque ricercata nella sintesi delle due prospettive. Bisogna unire, non contrapporre, i “poveri” di Luca e i “poveri in spirito” di Matteo. Aggiungendo a “poveri” l’espressione “in spirito”, questi non ha fatto un’operazione soltanto catechetica, ma anche ermeneutica: ha messo in luce una componente implicita, ma reale, del concetto di povero nell’uso che ne aveva fatto Gesù. Da ciò si vede come il Concilio è stato saggio nell’accogliere e inserire nella costituzione sulla Chiesa il richiamo alla povertà, ma come è stato altrettanto saggio nel non accogliere l’interpretazione particolare che si dava a essa in quel momento di forte tensione sociale, che avrebbe impoverito lo stesso concetto di povertà.

In tal modo si conferma
il grande principio della Tradizione che non è la sostituzione, ma lo sviluppo. L’interpretazione tradizionale della povertà non viene ribaltata, ma si arricchisce. I Padri avevano interpretato la povertà di spirito quasi come sinonimo di umiltà, oppure nel senso della povertà “volontaria” attuata nel monachesimo. Alla domanda: «Chi sono i poveri in spirito?», san Basilio, per non citare che le voci più autorevoli, risponde: «Quelli che sono divenuti poveri a causa dell’insegnamento evangelico, o quelli che accettano secondo la volontà di Dio la povertà in cui sono venuti a trovarsi per qualsiasi motivo». Sant’Agostino risponde: «È povero in spirito chi è umile». Unendo le due cose, umiltà e volontarietà, il Crisostomo risponde: «Poveri in spirito sono gli umili e i contriti di cuore...Vi sono molti che sono poveri, non volontariamente, ma per necessità di cose: non è a questi che si rivolge il Signore». I veri poveri sono, per lui, gli uomini «dal cuore pacificato e contrito» di cui si parla, per esempio, in Isaia 66, 27.

Questa interpretazione tradizionale, portata alla perfezione nella via dell’infanzia spirituale di santa Teresa di Gesù Bambino, si è arricchita, grazie alle discussioni recenti, di un’attenzione maggiore alla dimensione sociologica ed esistenziale dei poveri, ma non è stata smentita.